SI L'AMMORE NO

SI L'AMMORE NO


Noi facciamo l'amore così.
In playback.
Tutto il mondo lo fa.



uno spettacolo di e con Daniele Timpano e Elvira Frosini

finalista Premio Tuttoteatro.com alle arti sceniche "Dante Cappelletti" 2008
finalista Premio Landieri 2013


Le più belle storie d'amore sono quelle che finiscono quando uno dei due muore sul colpo. L’amore nell’immaginario collettivo, tra cliché, misoginia, pornografia, femminismo, sdolcinatezze e melensaggini.
Un uomo e una donna. S' incontrano. Si amano. Si mangiano.
Daniele Timpano e Elvira Frosini attraversati e scossi dai più disparati materiali: da Faccetta nera a Little Tony, dalle canzoncine anni trenta a Frank Zappa e Celentano, da Goethe e Cavalcanti a Beautiful e Mahler, passando per gli Harmony e il Vangelo.
La mamma è sempre la mamma? La donna è una madonna? E l’uomo è cacciatore?

drammaturgia e regia: Daniele Timpano e Elvira frosini
assistenza alla regia: Alessandra Di Lernia
disegno luci: Dario Aggioli
registrazione audio: Marco Fumarola, Dario Aggioli, Lorenzo Letizia
produzione: Kataklisma, amnesiA vivacE
coproduzione: Arti Vive Festival
in collaborazione con: Centro di Documentazione Teatro CivileArmunia, Consorzio Ubusettete
foto: Ulisse & Cannone, Jacopo Quaranta, Andrea Chesi
progetto grafico: Stefano Cenci


SI L'AMMORE NO - Promo video




Estratti dalla rassegna stampa:

"[...] La scena è vuota, vi è solo una bambola di gomma, una nuda femmina appesa a un gancio. Il senso dello spettacolo è tutto in essa implicito: “Dietro l'uomo romantico c'è l'uomo fascista”. Daniele Timpano e Elvira Frosini presentano “Sì l'ammore no”. Sono distesi a terra, proiettano le loro ombre sulla quinta di fondo, disegnano lo spazio con le dita. Poi si alzano, attacca una canzone, Daniele e Elvira vestiti di bianco e rosso si stuzzicano, punzecchiano il pubblico con piccoli aforismi o battute-battibecco, come tra due giovani sposi. Ci raccontano la storia del loro magico incontro. [...] I due scoprirono l'amore. Ma che cos'è l'amore, anzi l'ammore? [...] Elvira si protende verso il pubblico, lo interroga. Il pubblico risponde, risponde sempre. È lì per quello, per abbracciare e sostenere questi infantiloidi assi del palcoscenico e della confessione vera/finta. Il vero spettacolo è questo. Questo il suo succo.”

Franco Cordelli - Corriere della Sera

"Un incontro tra il maschile e il femminile, partendo da cliché della cultura cattolica postmoderna e radiotelevisiva per riapprodare ad archetipi edipici, con qualcosa di imprecisato nel mezzo. Elvira Frosini e Daniele Timpano si muovono sulla scena buia come marionette, nascosti dietro occhiali colorati, o diventano improvvisamente reali, con enormi occhi puntati sul pubblico ad esprimere tutte le loro perplessità e impulsi. Un incontro, una possibilità, una minaccia, sia essa una rivale gonfiabile o un omicidio. La prima volta avviene in playback, secondo i luoghi comuni del caso, ognuno immerso nella sua solitudine. Da rivalse femministe, che risultano sfasate rispetto a un desiderio d’amore arcano, a rivalse maschiliste di sopraffazione o di fuga verso l’omosessualità, ugualmente inadeguate al primordiale istinto, l’affannarsi reciproco confluisce nel mezzo di un cappio rosso: dinosauro? simbolo fallico? animale domestico? surrogato di un figlio? o parto osceno di una società allo sfascio? I due ne bramano la preferenza come momentanea soluzione alle rispettive insoddisfazioni: “a chi vuoi più bene, alla mamma o al papà?” La piccola creatura illuminata di rosso canta, e qualche volta sogna di uccidere mamma e papà.
Un tentativo di dare voce al pubblico si tramuta nell’impossibilità di autonomia del sentire quando le risposte sono preregistrate, preconfezionate e inculcate, lo spirito nazifascista serpeggia inquietante sotto affermazioni di reciproco affetto e desiderio, sfociando nel cannibalismo. Finale in medias res. To be continued?"

Claudia Donzelli - Mercuzionline

"E’ la storia di uno stupro, questa. Si, di uno stupro perpetrato ai danni della nostra psiche e –perché no?- del nostro corpo. Di come il nostro candore sia divenuto ferocia, la nostra nobiltà d’animo prevaricazione, il nostro donarsi assuefazione. Di come l’amore sia divenuto no.
Il nostro, non il loro -di Daniele Timpano ed Elvira Frosini. Si l’ammore no è il grido disperato e sincero, sinceramente disperato, di questi ultimi due romantici della scena –e non. Ma nello spazio vuoto che è divenuta la nostra sfera perfetta emozionale nessuno può sentirti urlare. E così la delicata operazione spettacolare compiuta dai nostri –andati in scena al Teatro Colosseo di Roma dal 17 al 22 novembre- rischia di passare inosservata, anestetizzata, o peggio ancora –e questo pericolo dai denti sporchi e aguzzi è dietro l’angolo ad aspettarli per tutta la durata del lavoro- fraintesa, respinta a priori. Mostrano le cose come stanno, EF e DT –tags che suggellano la loro dichiarazione di intenti “Noi facciamo l'amore così. In playback. Tutto il mondo lo fa”, come i graffiti sovversivi e reietti che apparivano in uno dei capolavori (mancato… ma questa, in fin dei conti, non è la storia di quel decennio?) del cinema degli anni ’80, Essi vivono. Mostrano, imperterriti, insensibili, immagini di cui siamo schiavi e di cui vorremmo essere lo specchio, corpi che si sostituiscono alla consapevolezza dei nostri, rapporti umani ritagliati su misura e colori dalle vite di divi bidimensionali assaporati su carta o sullo schermo –che poi, infine, non sono la stessa cosa? La stessa superficie? Lo stesso altrove?
[...] Come scriveva Demetrio Stratos nell’ultimo album, citando Baudelaire, “in fondo all’ignoto per trovare qualcosa di nuovo”. E i nostri due ci sono andati, in fondo al noto. Sporcandosi e sporcando il loro lavoro di finto perbenismo, stupidità, arrendevolezza. Senza soluzione di continuità, come lo è il bombardamento “consapevole” a cui siamo sottoposti, si susseguono canzonette del ventennio e bambole gonfiabili, mitra e occhiali a forma di cuore, vestiti immacolati sporcati da cravatte e scarpette rosso sangue, dibattiti forzatamente divertenti ma in realtà muti.
Non c’è altro. Nessuna sovrastruttura spettacolare, testuale. In scena solo loro due, Daniele ed Elvira. Ad inseguirsi, insultarsi, cantarsi e ballarsi addosso. Facendosi del male ad ogni loro incontro, perché a questo siamo destinati: ad un lungo e futile gioco delle parti falso e perverso, stuprati da una Società delle Immagini e dei Canditi senza nessuna possibilità di far affiorare qualcosa che sia intimamente e provocatoriamente nostro. Ogni relazione sentimentale –e in questo caso, scenica, spettacolare- viene degradata ai bordi di un qualcosa che di volta in volta è Cuore di Rita Pavone o le pin-up di mitra vestite delizia anti-tensione/stress/crollo psicologico dell’esercito americano. E non è un caso che lo spettacolo non parli di un uomo o di una donna o di entrambi, ma di un uomo in rapporto ad una donna: la madre.
[...]  uno stridore indicibile ci permea e attanaglia per tutto lo spettacolo, consapevoli della sincerità e del candore di quei corpi, di quelle menti, abbruttiti da quel qualcosa di nuovo/noto di cui scriveva Baudelaire e cantava Stratos. Assediati da un notevole disegno luci –a firma Dario Aggioli-, i nostri, soltanto Daniele Timpano ed Elvira Frosini, si mettono a nudo simbolicamente ed emotivamente  [...]
Ma la sorpresa –oltre al pericolo sopra menzionato- è dietro l’angolo.
E’ il loro bambino, un piccolo dinosauro. Parto mostruoso che per forza di cose è diverso, barbaro, perturbante. Gioco di specchi prodotto dalle nostre menti assoggettate e fintamente sognanti, che respingono il prodotto della loro unione ad una dimensione bestiale e primitiva, non permettendoci di vederlo per quello che realmente è: il frutto splendente di un amore intimo e per questo vero degli ultimi due romantici della scena –e non."

Luigi ColuccioLettera22

"[...]c’è una scena vuota che si riempie grazie alla presenza dei due attori vestiti di bianco con occhialoni di plastica, le luci dai forti contrasti di Dario Aggioli, una bambola gonfiabile che pende impiccata alla graticcia e un dinosauro giocattolo, fermo in mezzo al palco, un po’ animale domestico, un po’metafora multiforme dell’agognata maternità. E allora via si parte con uno spettacolo godibilissimo, ma che non risparmia nessuno: la donna con i suoi cliché da ventunesimo secolo che rifiuta tutto, dall’uomo padrone (come le ha insegnato la madre) al femminismo (sputando in faccia a Marx ed Engels), per poi ritirarsi in disparte perché ha le cose sue; i dogmi impartiti dall’attuale Papa sull’uso dei contraccettivi e poi l’uomo perennemente schiavo del suo maschilismo. In questo frammentato bazar di “occasioni teatrali” Elvira Frosini e Daniele Timpano reggono il ritmo, sfuggono alla comprensione immediata e banale restituendo, all’interno del cortocircuito realtà-finzione, momenti di vivace fantasia scenica.
D’altronde si dall’inizio si presentano al pubblico con i propri nomi, dichiarando : “Questo non è uno spettacolo romantico. Questo è uno spettacolo antiromantico. E’ uno spettacolo sul fascismo latente nell’immaginario romantico maschile”. Dialogano con gli spettatori, stabiliscono un contatto non solo emotivo, li mettono a disagio. Il loro è anche un teatro delle contraddizioni. Con un anti-stile eterogeneo e frastagliato ci svelano le ipocrisie del nostro tempo e lo fanno con il pugno sinistro alzato e un sottofondo musicale che va da “Faccetta nera” a “Questo piccolo grande amore”."

Andrea Pocosgnich - Teatro e Critica

"Daniele Timpano e Elvira Frosini, insieme nella vita e sulla scena, confezionano uno spettacolo sulla coppia e sull’amore. Lo fanno prendendosi poco sul serio, con sarcasmo e intelligenza. “Sì l’ammore no” è il titolo che ben definisce questo stato. Quello a cui assistiamo in realtà è più simile ad un talk show surreale, ad un format televisivo intelligente (se ne esistono), dove il pubblico prende la parola e chiamato in causa risponde.
È teatro autobiografico? È un reality teatrale? Certo è che Daniele e Elvira sono sposati sia fuori che dentro il teatro, e questo mettere in scena la propria storia d’amore rappresenta il 'leitmotiv' della loro performance.[...] Tra elementi esilaranti (la storia di come i due si sono conosciuti, la storia del cucciolo-dinosauro, la bambola gonfiabile) e spunti di riflessione (la condizione della donna nella società contemporanea, il machismo, gli anatemi del Papa contro il preservativo) la cosa più interessante ci sembra questo collegamento tra maschilismo e fascismo, entrambi vizi molto italiani. In una società come la nostra, dove il maschilismo è presente in gran parte dell’attività politica ed enfatizzato dai media, questa chiave di lettura sembra molto calzante.

Simone PaciniKlpteatro.it
"Molto divertente e benfatto. E molto bravi Daniele Timpano e Elvira Frosini, autori e interpreti dello spettacolo Sì l'ammore no, visto al Nuovo Teatro Colosseo. L’oggetto è originale e imprevedibile. Le forme sono credibili e intrecciano opportunamente razionale e sensibile. I due protagonisti, nel pieno possesso dei mezzi artistici, si presentano come una coppia nella vita e nell’arte, agiscono saltando la mediazione del personaggio, utilizzano tutto quello che serve per comunicare. Daniele ed Elvira "s’incontrano, si amano, si mangiano". I riferimenti autobiografici ci sono, ma Daniele ed Elvira li nascondono, li rivelano e li tradiscono, giocando con il pubblico e producendo un movimento seducente che va dal particolare al generale. Si all’amore come utopia concreta, no all’amore fatto di "cliché, misoginia, pornografia, femminismo, sdolcinatezze e melensaggini". Temi all’ordine del giorno della vita quotidiana, trattati però con acidula ironia e leggerezza poetica. Generano un sorriso che non ci salva dalla vita e dalla delusione della fine dello spettacolo, perché vorremmo che durasse qualche altro minuto."

Alfio Petrini - Amnesiavivace.it

"In due sulla scena si può? E intendo in due proprio due, non due come uno e mezzo o uno copia dell'altro, ma proprio due. Due. si può? Due autori, due attori, due scenografi, due registi. Tutto di due e due in tutto. E il due è il bilico, la bilancia, l'alternanza, la contraddizione, l'irrisolto. Frosini e Timpano dunque provano a fare due, a fare del due il possibile o l'impossibile punto di congiunzione dell'esperienza dell'estraneo. Perché l'altro è ontologicamente estraneo, alieno, diverso, oppure non è altro. Ma se è tale allora è anche ciò che più spaventa, ciò che mi insidia nella mia identità, nel mio essere-me-e-non-un-altro. Il due è il nome di tutto questo, perché se non c'è Uno allora c'è Due e solo se non c'è solo Uno può esserci l'Altro (gli altri, quelli vengono dopo, aperta la breccia nel monolite che dunque sono).
Ma il due non è una formula rassicurante. Il due è anche la coppia, la restaurazione dell'Uno, il ritorno di un'unità chiusa ed escludente in cui si sta "attaccati come le mignatte" (Gaber): la famiglia come cellula del nazionalismo. Si può fare che i due, la coppia, continuino ad essere un due: l'apertura, l'abisso, l'eterogeneità dell'altro? Anche questo due è implicato in "Sì l'ammore No", l'altro che una volta trovato viene fagocitato e metabolizzato e, dunque, perduto in partenza. Perché fare due, ma farlo davvero, significa provare l'impossibile equilibrio instabile di una convivenza del diverso. Frosini e Timpano giocano il gioco pericoloso di parlare del due, dunque di mettere in scena uno spettacolo umanamente impossibile, l'impossibile umano come spettacolo..."
Ma, quando io avrò durata l'eroica fatica di trascriver questa recensione filosofica da questo dilavato e graffiato autografo, e l'avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla? Sto parlando dello spettacolo o sto solo speculando prendendo come spunto ciò che ho visto? Arduo dilemma che, guarda caso, è proprio il dilemma del due. Ricominciamo dal principio, dunque, cioè dall'Uno, invocando quella leggenda che narra come Dio abbia tentato 27 volte di creare il mondo prima che gli riuscisse di fare qualcosa di diverso da sé.
In principio, dunque. In principio era la meraviglia, che da Platone in poi è considerata lo stimolo aurorale del filosofare. Si inizia a riflettere perché qualcosa ci meraviglia, l'interesse nasce dallo stupore e l'interesse ad una recensione non fa eccezione. Ho visto "Sì l'ammore No" e sono rimasto affascinato dal gioco a incastri di gesti, smorfie, parole, suoni e colori, dalla costruzione di un'estetica grottesca del quotidiano e dal suo repentino squarciarsi in impromptus di quotidianità apparente: perché mi sembrava che tanto ci parlasse di noi la proiezione burlesca dell'esperienza collettiva dell'amore che si giocava sulla scena, quanto poco i momenti di dissolvimento della quarta parete facesse veramente entrare in scena il pubblico o la vita "reale". Abilissimo gioco di specchi in cui la salvezza dell'esperienza estetica si garantisce nutrendosi della finzione del reale (anche e soprattutto di ciò che, sempre sottoposto all'occhio di bue avanguardistico della scena "allargata", rimane caparbiamente fittizio). Ma tutto questo e l'altro ancora che dalla ricchissima tavolozza di colori si concretizzava per l'occhio e l'orecchio divertito e interdetto dello spettatore mi era sembrato fin da subito troppo per essere rinchiuso in una recensione."

Marco Maurizi - Amnesiavivace.it

 "Per parlare di Sì l’Ammore no bisogna partire dal titolo, da questo titolo che, all’apparenza afferma e nega e che in realtà non spiega, allude, ma non insegna, spogliandosi preventivamente di qualsivoglia intento didascalico. Fotografia con l’effetto seppiato del grottesco, quella a cui la coppia (nella vita, sulla scena) Frosini/Timpano  dà vita è un’istantanea dinamica dell’universo relazionale contemporaneo, così come è venuto sviluppandosi e formandosi, plasmato e viziato, dalle influenze molteplici, variegate e contrastanti con cui il Novecento ha bombardato l’uomo moderno.

Il prodotto (non) finale sono un uomo e una donna, gli abitanti di questo contemporaneo postmoderno, già zombi in pectore, come sembrano preconizzare le due luci verdi che ne illuminano i corpi riversi in scena all’inizio e che rimandano alla Zombitudine che verrà (e che in scena abbiamo già vedeuto), futuri corpi morti che qui cominciano a snocciolare i grani di un rosario di decomposizione.
Visione binoculare, quella che ci offrono Daniele Timpano ed Elvira Frosini, confezionando uno spettacolo a due fuochi, in cui l’interazione fra i due è paritetica, germinando in due cespiti alternati e sovrapposti che invitano lo sguardo a biforcarsi, come per seguire una partita di tennis. Non c’è infatti nella concezione drammaturgica dell’affiatato duo una figura preponderante ed una accessoria, ma una complementarità speciale – a cui non corrisponde necessariamente un bilanciamento dei personaggi interpretati – un sodalizio artistico, quello tra Elvira Frosini e Daniele Timpano, che ci fa tornare alla mente le parole di Gibran allorquando paragonava gli elementi di una coppia alle corde di un liuto, ciascuna unica benché entrambe vibranti di musica eguale. E vibrano insieme, Daniele ed Elvira, portando in scena i propri nomi, proiettandoli in quest’universo intriso di contraddizioni chiamato coppia, così come si è venuto componendo impregnandosi di stereotipi divenuti predominanti.
E così, se la figura materna diviene l’archetipo proiettivo dell’immaginario maschile, la donna a sua volta appare come il sottoprodotto romantico della cattiva letteratura. Nel focus binoculare che s’instaura sulla scena, i due ruoli a complemento veicolano il susseguirsi di decaloghi e canzonette: il viaggio intorno all’universo della coppia, a bordo di un’Enterprise targata Frosini/Timpano si colora del bianco e  del rosso dei loro abiti, viene filtrato dalla visione distorta dei loro occhialoni a forma di cuore, si anima dei loro movimenti corporei che sembrano rispondere alla logica di un’armonia meccanica (il loro modo di muoversi in palco è sincronico come un orologio), e viene illustrato da immagini rapide e taglienti, come quella che vede lui tenere in braccio lei come si fa con una sposa, traducendo il matrimonio, con la sua ipocrisia dichiarata del “per tutta la vita” nella coreografia di uno sforzo.

Sono gli aspetti deteriori della vita a due ad occupare la scena, a vivere nella dualità di un palco diviso a metà, occupato da ciascuno nel combattere una logorante guerra di posizione (quella dei sessi), tra maschilismo estremo e simbologie grottesche: un piccolo dinosauro in centro di proscenio, illuminato da un fascio di luce rossa, è il simbolo di un possesso morale e fittizio attorno a cui si consuma l’ennesimo scontro per la primazia, il parto degenere di un amore malato e che, nondimeno, un domani potrà perfino uccidere chi gli ha dato la vita, mentre una bambola gonfiabile, altra compagna di scena dei due, diventa l’emblema della trasformazione dell’eros in stanchezza prima ed in violenza poi, scalciata violentemente da lui mentre lei, già non più creatura erotica, giace in terra derelitta. L’amore consuma, deperisce, finisce; finisce anche male, se la sua consunzione avviene all’ombra di una società che consuma, fagocita, mastica e infine sputa.
L’istantanea di un universo non resta circoscritta ad un esercizio da ribalta; è invece volontà di offrirsi alla platea come uno specchio, tant’è che Elvira scende di palco e, microfono alla mano, intervista la platea, mostrando la replicabilità speculare degli interrogativi irrisolti che sottendono alla messinscena, perché se loro dichiarano di “fare l’amore in playback” (metafora evidente della non sostanzialità dei rapporti), dall’altra parte non è affatto detto che si viva l’amore come il bello della diretta; anzi, col loro coacervo di luoghi comuni, stereotipi misogini e cliché declinati secondo quel gusto del grottesco che costituisce la cifra espressiva della loro arte scenica, Elvira e Daniele raccontano come ormai la soglia della pornografia si sia spostata su una linea altra rispetto a quella del pudore e della morale, toccando altresì  ambiti differenti, che sono quelli di una difficoltà relazionale che si traduce in una sostanziale solitudine monadica, che vede uomo e donna triturati in un frullatore di impulsi che li rendono mano capaci di instaurare una relazione orizzontale.
Colpisce – e non è la prima volta – come il duo Frosini/Timpano sappia congegnare drammaturgie compiute coniugando lo spessore dei contenuti con una forma capace di divertire senza strizzatine d’occhio complici ma puntando su un'ironia intelligente e funzionale; dimostrano Daniele Timpano ed Elvira Frosini, che si può fare buon teatro contemporaneo essendo ad un tempo leggeri e densi, senza furbizie e compiacenze.
Alla fine, l’applauso s’accompagna al sorriso."

Michele Di Donato - Il Pickwick

“Vediamo di fronte a noi due attori, due personaggi, un uomo e una donna, Daniele e Elvira, due mondi e due universi che non riescono a entrare in comunicazione se non superficialmente, se non mantenendo una distanza, fisica – nel senso che ognuno ha il suo rettangolo di luce - e vocale – fanno l’amore in playback. [...] Ed è proprio in questa distanza che si ritrova anche il senso della relazione con gli spettatori, che possono entrare in quell’universo-spettacolo, in quella sfera di vetro, solo accettando di rimanere separati dalla scena, o non accorgendosi di essere divenuti anch’essi stereotipo, stereotipo del pubblico posto dietro ad una quarta parete invisibile. Stiamo quindi a guardare attraverso questo vetro invisibile il luminoso mare verde dei colori dell’Italia, mentre il bianco Daniele se ne va, lasciando soli Elvira in un’isola di luce rossa e noi nel buio della sala.”

Sarah Paroletti Art'O 

"La lotta dei sessi, espressi con le loro specificità e debolezze è servita con tanta ironia, intrisa spesso di corrosivo sarcasmo che lascia poco spazio al romanticismo. La scena è vuota, vi è solo una bambola di gomma e un piccolo dinosauro che poi si scoprirà essere il figlio della strana coppia, che sogna qualche volta di uccidere mamma e papà. Elvira Frosini e Daniele Timpano si confessano con le loro certezze e le debolezze, coppia vera e falsa, nascosti dietro grandi occhiali si cercano e nello stesso tempo si evitano, coinvolgendo e manipolando anche il pubblico; il risultato è sempre lo stesso, forse l'amore non esiste, forse c'è solo la forte necessità di avere qualcuno da toccare, magari da amare, come del resto dicevano tanto tempo fa Mozart e Da Ponte nel “Così fan tutte”, solo che qui c'è Rita Pavone, sommersa da un nugolo di pallottole."

Mario Bianchi - Klpteatro.it

foto di Andrea Chesi
"[...] In scena due giovani sposi (forse gli attori stessi) alle prese con entusiasmi plastificati, affettività crudeli e ciniche, il loro è un amore in differita, un playback, come recita il sottotitolo, che non combacia con la verità. Ma cerca di raccontarla in presa diretta. I luoghi comuni non collimano con la quotidianità della coppia. Sono eterni nella loro insignificanza. Però la coppia stessa è costretta a confrontarsi con l’alterità e la diversità di genere. Differenze inconciliabili. Maschile e femminile sono prototipi di violenza.
Dux in scatola inaugurava la stagione di un teatro che faceva i conti con una narrazione stanca di raccontare. Nuove valvole dovevano sfogare un’aggressività latente al recitato. Sì l’ammore no è un tentativo di esplosione. Piccole intemperanze, insofferenze che rigurgitano rancore, forse contro il teatro stesso e il suo star system. Timpano è andato così oltre il meta-teatro da ri-confluire nel colloquiale. Infatti l’attore interagisce con gli spettatori e la Frosini porge il microfono al pubblico per domande a risposta secca del tipo: “hai mai tradito tua moglie?” Il recitato si fa eccentrico, un realtà teatrale accresciuta, per prendere a prestito un termine dalla virtualità. Sfoghi, esplosioni che potremmo iscrivere in quella fatica declamata dal teatro di Pippo Del Bono se non fosse che non c’è continuità, linearità interpretativa. Anzi, vige l’effetto Jeff Koons, il kitsch e il souvenir prima dell’esperienza, blocca i due attori in pose da Duane Hanson. Iperrealismo che fissa i corpi dei due attori in statuine da torta nuziale. I due si sono conosciuti, innamorati, fidanzati, ma la violenza latente del pensiero maschile e la fragilità cinica del femminile ci dicono che ciò che stiamo vedendo è apparenza. Un dinosauro giocattolo è più vero di un corpo di carne. E i due sono dei ready made umani, apparenza finta e realtà vera combaciano in una umanità denudata da sistemi di difesa. La donna può anche impugnare il mitra e sparare ma questo “troppo umano” corre il rischio inevitabile di diventare post-umano e sicuramente disumano."

Simone Azzoni - D'Ars Magazine


Daniele Timpano ed Elvira Frosini sono due artisti che hanno un background molto diverso: lui proviene essenzialmente da un teatro di tipo drammaturgico, composto (in gran parte) da monologhi di grande impatto e da una struttura tipicamente teatrale, seppur nel senso contemporaneo del termine; lei invece ha una formazione molto più orientata al teatro/danza e al movimento scenico come significante, seppur negli ultimi anni ha progressivamente inserito la parola all’interno delle sue performance. Spesso dalla diversità emergono le cose più interessanti, e così il connubio nel 2008 ha iniziato a lavorare a questo spettacolo, che tratta dell’amore, seppur non nel senso più classico del termine.
Si, l’ammore no infatti si compone di una serie di momenti, non collegati tra loro da una scrittura drammaturgica di tipo tradizionale, atti ad indagare gli stereotipi e i clichè della passione, sia dal punto di vista individuale e di coppia (il matrimonio come dramma, la masturbazione, ecc.) sia dal punto di vista della società (il dibattito con il pubblico che ricorda certe spettacolarizzazioni televisive delle relazioni come Uomini e donne); il tutto condito da una serie di musiche che fanno parte un po’ dell’immaginario della canzone italiana romantica degli anni ’70-80 (Baglioni, Celentano, insomma quella cantautorialità un po’ struggente), che contribuisce a dare allo spettacolo un tocco vintage che poi in realtà stona (volutamente) con la contemporaneità dello svolgimento del tema trattato.
Molto riuscita è la mescolanza dei due diversi modi di fare performance dati dalla differente formazione dei due artisti: se da un lato è molto pregnante, soprattutto rispetto agli altri lavori di Timpano, il lato più specificatamente legato al movimento, quasi di danza contemporanea, d’altro canto emergono nettamente le scritture drammaturgiche, anche un po’ ironiche, che sono un po’ il marchio di fabbrica dell’autore/attore romano; Si, l’ammore no in fondo dissacra l’idea tradizionale di passione e di relazione amorosa, svelandoci così allo stesso tempo l’essenza stessa dell’amore.
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"Daniele Timpano ed Elvira Frosini sono due artisti che hanno un background molto diverso: lui proviene essenzialmente da un teatro di tipo drammaturgico, composto (in gran parte) da monologhi di grande impatto e da una struttura tipicamente teatrale, seppur nel senso contemporaneo del termine; lei invece ha una formazione molto più orientata al teatro/danza e al movimento scenico come significante, seppur negli ultimi anni ha progressivamente inserito la parola all’interno delle sue performance. Spesso dalla diversità emergono le cose più interessanti, e così il connubio nel 2008 ha iniziato a lavorare a questo spettacolo, che tratta dell’amore, seppur non nel senso più classico del termine. Si, l’ammore no infatti si compone di una serie di momenti, non collegati tra loro da una scrittura drammaturgica di tipo tradizionale, atti ad indagare gli stereotipi e i clichè della passione, sia dal punto di vista individuale e di coppia (il matrimonio come dramma, la masturbazione, ecc.) sia dal punto di vista della società (il dibattito con il pubblico che ricorda certe spettacolarizzazioni televisive delle relazioni come Uomini e donne); il tutto condito da una serie di musiche che fanno parte un po’ dell’immaginario della canzone italiana romantica degli anni ’70-80 (Baglioni, Celentano, insomma quella cantautorialità un po’ struggente), che contribuisce a dare allo spettacolo un tocco vintage che poi in realtà stona (volutamente) con la contemporaneità dello svolgimento del tema trattato. Molto riuscita è la mescolanza dei due diversi modi di fare performance dati dalla differente formazione dei due artisti: se da un lato è molto pregnante, soprattutto rispetto agli altri lavori di Timpano, il lato più specificatamente legato al movimento, quasi di danza contemporanea, d’altro canto emergono nettamente le scritture drammaturgiche, anche un po’ ironiche, che sono un po’ il marchio di fabbrica dell’autore/attore romano; Si, l’ammore no in fondo dissacra l’idea tradizionale di passione e di relazione amorosa, svelandoci così allo stesso tempo l’essenza stessa dell’amore."

Franco Cappuccio - Scene Contemporanee

"[...] Si l’ammore no è uno di quegli spettacoli (non molti, per la verità) che dichiarano apertamente il proprio intento: mettere in crisi la concezione tradizionale di “amore” (non a caso storpiato in “ammore” nello stesso titolo), che, nel suo intimo – ma ben nascosto – maschilismo schiaccia la figura femminile, fino a renderla puro corpo nelle mani dell’uomo (la presenza della bambola gonfiabile, ideale terzo protagonista dell’opera, non è affatto casuale, offrendo una plastica riproduzione della scissione tra psiche e “viva carne” della donna sottomessa). Timpano e Frosini scompongono il concetto di “amore romantico” in una sorta di cubismo scenico che ne raffigura le molteplici sfaccettature, lasciando allo spettatore l’onere di ricomporle in una dimensione unitaria che ne schiuda il vero significato; così, da Little Tony a Faccetta Nera è un passo e sia nella banale e scanzonata citazione del primo (“Per ogni donna ci vuole un uomo accanto”) che nel più serioso ritornello della seconda (“Quando staremo vicino a te | noi ti daremo un’altra legge e un altro re”) è possibile scorgere un’identica reificazione della donna, “cosa” nelle mani di un altro essere umano per pura convenzione sociale – e senza che ne sia essa stessa consapevole.
Sapore provocatorio assumono, dunque, le domande che la Frosini finisce per porre al pubblico in sala (“Spettatrice, tu hai un uomo?”, “Spettatore, tu hai una donna?”), domande che invitano implicitamente alla riflessione sul potere persuasivo delle parole, capaci anche in espressioni apparentemente innocue di segnalare un’opzione ideologica sottostante: il balbettio delle risposte non può che essere il corollario dello scossone emotivo provocato dai due artisti in scena.
La regia [...] avvalora la separazione dei protagonisti anche nella scelta dei movimenti scenici, con un progressivo allontanamento fisico dei due, che man mano sostituiscono i monologhi al dialogo iniziale; un crescendo di incomunicabilità che trova il suo apice nel diverbio surreale in cui i due amanti si contendono il privilegio dell’affetto del dinosauro posato al centro della scena, trattato a mo’ di figlio del quale entrambi anelano le attenzioni. Una competizione che anticipa, di fatti, la definitiva frattura dei due protagonisti. Perfetta è l’intesa sul palco degli interpreti.  [...]"

Antonio Indolfi - Quarta parete

“[...] A fondamento dello spettacolo c’è la devianza cui siamo stati costretti, parlando d’amore, dalla cultura pop e dalla televisione, che li porta a giocare con la musica, tradire sentimenti con lo straniamento d’effetto, poter dire “noi facciamo l’amore così: in playback. Tutto il mondo lo fa”, e questo è vero accidenti, abbiamo imparato a canzonare noi stessi ripetendo frasi e gesti mutuati dalla tv, l’organo che ripetiamo e che ci ripete al punto da non capire più qual è l’origine delle cose o emozioni: il vero o il posticcio è la genesi? La confusione, frammentazione della verità ha portato fin qui, a non capire più se questi sentimenti ci appartengano veramente o siamo in una vorticosa balìa di oceano in cui la barca si muove ora verso il sì, ora verso il no, seguendo il dolce, ipnotico, sfuggente dondolare delle onde.”

Simone NebbiaTeatro e Critica

“La immensa possibilità di riformulare i casi e le esperienze della vita scartando, ripulendoli del loro superficiale strato/stato di quotidianità. Quello che nella realtà corrente non è scremabile, sul palco lo è, ed è ordinaria stupefazione. [...] Surreale dissacratorio, diverte e provoca con un ottimo uso dei tempi, con pause cercate, ma estremamente naturali.”

Ofelia Sisca -Teatroteatro.it