ZOMBITUDINE

 ZOMBITUDINE

 “La morte è una cosa meravigliosa”
[ Richard Matheson, 1954 ]


uno spettacolo di e con
Elvira Frosini e Daniele Timpano
zombitudine.it

Un uomo e una donna sono rifugiati in un teatro insieme al pubblico. In questo spazio di illusoria salvezza e resistenza attendono l'arrivo di qualcuno o qualcosa: la fine del mondo? Un nuovo inizio? La Rivoluzione? Forse arrivano gli Zombi.
Gli Zombi siamo noi. La Zombitudine è la nostra condizione quotidiana. Stretti tra l'emergenza di un evento imminente e devastante e una quotidianità claustrofobica si fa fatica a riconoscere il pericolo o la salvezza: la vita da assediati è divenuta normalità. Quella dello Zombi allora è l'immagine della nostra fine, ma è anche un'immagine di speranza, l'unica prospettiva di rinascita, l'unica forma di vita alternativa al dominio di banche, finanza e multinazionali. L'unico Risorgimento possibile per noi e il nostro Paese è un Risorgimento Zombi. Zombi di tutto il mondo uniamoci! 

Vorremmo essere morti. 
O dovremmo essere morti. 

O forse siamo morti? 
Morti fra i morti. 
Tutto inizia con i morti. Se non siamo morti, non cominciamo. 

Siete morti? Cominciamo.

Testo, regia, interpretazione / Elvira Frosini e Daniele Timpano
Scene e costumi / Alessandra Muschella
Ideazione e realizzazione tecnica luci / Marco Fumarola e Daniele Passeri
Collaborazione al disegno luci / Matteo Selis

Luci / Martin Palma e Omar Scala
Aiuto regia / Francesca Blancato
Coordinamento progetto #WalkingZombi / Angela D'Alessandro, Andrea Martorano, Alessio Pala, Eleonora Paris, Alessio Rizzitiello, Arianna Saturni, Laura Toro

Organizzazione e distribuzione / Daniela Ferrante
Ideazione e regia teaser video / Emiliano Martina e Alessio Rizzitiello
in collaborazione con / Grapevine Studio
Progetto Grafico / Antonello Santarelli
Disegni / Valentina Pastorino

produzione / amnesiA vivacE, Kataklisma
coproduzione / Teatro della Tosse, Fuori Luogo, Progetto Goldstein / Teatro dell'Orologio
con il contributo del Teatro di Roma nell'ambito del progetto "Perdutamente"


Materiali video  

Frosini / Timpano raccontano Zombitudine a Fanpage



Zombitudine / teaser video ufficiale




#italianibravimorti / il ciclo di video a cura di Alessio Rizzitiello e Emiliano Martina











Rassegna stampa


L'Italiano medio è un morto vivente
[ Renato Palazzi, 8 dicembre 2013, Il Sole24ore ]
[...] "La coppia Timpano/Frosini - grandi irregolari del teatro, irridenti, graffianti, volutamente irritanti e politicamente scorretti - confeziona un testo che dovrebbe sembrare un non testo, aleatorio, magmatico, apparentemente improvvisato, ma che invece è un testo vero [...] non privo di una sua stralunata qualità poetica. [...] colpiscono soprattutto alcuni monologhi sull'individuo solo di fronte alla paradossale bellezza della morte [...] spicca tra questi brani l'incalzante rivendicazione di lei che non vuole tornare, non vuole risorgere, aspira a una fine definitiva: "Il mio corpo, sepolto nel cemento, nella sabbia, nel marmo, in grotte e cavità, in una palude o nel miele come Alessandro Magno, o immerso nell'acqua, incastrato o appeso tra le chiome degli alberi, tra le radici degli alberi, nei buchi degli alberi, o imbalsamato, pietrificato, sgretolato, divorato; o esposto al cielo, in una Torre del silenzio, ce ne sono ancora forse a Bombay..." [...] Che li si prenda singolarmente oppure in coppia, Elvira Frosini e Daniele Timpano sono fra le presenze più imprevedibili e provocatorie del teatro italiano di oggi: ogni loro intervento graffia, disturba, spiazza la sensibilità dello spettatore. Il loro nuovo spettacolo si intitola non a caso Zombitudine, e vuole assumere sarcasticamente la condizione dei morti-viventi come emblema dell’Italia di oggi, metafora di una fine collettiva, ma anche di una paradossale speranza di rinascita" [...]


Zombitudine
[ Matteo Brighenti, 19 dicembre 2013, Doppiozero ]

"La vita dura un battito di ciglia, le banche, la finanza, le multinazionali sono morti che vivono per sempre. È la fine che abbiamo fatto e continuiamo a fare in Italia. Ogni giorno di più.
Bisognerebbe strappare la biografia del presente al limbo della crisi economica ed esistenziale e dirigerla in ciò che vogliamo impersonare: una comunità da difendere. Zombitudine, scritto, diretto, interpretato e prodotto da Elvira Frosini e Daniele Timpano ci fa sbancare il lunario della sopravvivenza con una bomba di ironia a grappolo mezza viva e mezza morta. Un nudo integrale delle paure di cui non possiamo fare a meno per morire da vivi. Un varietà esalante fuochi d’artificio sul “fine pena mai” di esistere, che seziona l’attualità con il bisturi dell’immaginario horror. [...]
Un uomo e una donna, le fedi al dito, sono “rifugiati teatrali” insieme al pubblico. Vestiti con abiti color pastello, hanno con sé solo una valigia e camminano in lungo e in largo, cercando di (far) prendere una posizione sulla conquista della nostra Penisola da parte degli Zombi. I due, però, sono co-stretti in proscenio: il grande sipario acceso di un rosa caramelle, un po’ melodramma zuccheroso un po’ circo decaduto, rimane chiuso. Lì dentro cova l’epicentro di ciò che non credono possibile, ma per ora la minaccia grava soltanto sulla libertà di movimento, schiaccia le gambe, non lo spirito. Ci si può quindi battibeccare sulla Loro invasione dell’Italia come se si trattasse di scegliere il colore della carta da parati per il soggiorno. Questa atmosfera da apocalisse sospesa ammantata di tocchi anni ’50 (le scene e i costumi sono di Alessandra Muschella) fa di Zombitudine un Vacanze Romane stravolto da Tim Burton. Frosini e Timpano intendono criticare il teatro “classico” che distribuisce pannicelli caldi a un pubblico che vuol essere rassicurato nelle sue convinzioni, ma così rappresentano anche quanto sia quotidiano lo scontro con i morti viventi, familiare e quasi casalingo. Ci riguarda tutti. Da vicino. [...] Elvira Frosini e Daniele Timpano tengono il pubblico costantemente sulla corda di dialoghi incalzanti, in un modo personalissimo che alterna bastone e carota, come le pile che per dare energia agli apparecchi elettronici devono stare l’una a rovescio dell’altra: tirano schiaffi al pensiero comune e poi gli accarezzano la guancia, accelerano il ragionamento poi frenano di colpo e quello che lasciano sul palco sono le strisciate nere di parole dissacranti e il puzzo del terrore mortale di riconoscere chi sono davvero i morti viventi. E chi sta meglio tra noi e loro" [...]

Zombitudine
[ Dalila D'Amico, novembre 2014, Alfabeta2 ]
Zombitudine - foto di Piero Tauro
[...] "Lo spettacolo, frutto di un’ incubazione avviata nel 2012 durante il progetto “Perdutamente” al Teatro India, mette in scena il collasso di un corpo, definito da Elvira Frosini una matrioska: è il corpo sfaldato del postcapitalismo, il corpo consumato della società italiana, quello logorato dell’apparato politico, il corpo asfissiato del teatro, quello comatoso di una lingua che ha smesso di significare, quello proprio che non desidera altro che caffè, quello dello spettatore che non prende posizione. Strato dopo strato, il duo romano, sveste questo corpo scoprendone l’assenza, la morte o il suo rovescio: la Zombitudine. 
La morte come rottura dei clichè è d’altronde il filo conduttore che lega il lavoro della compagnia, la cui ricerca è volta ad indagare i rapporti tra abitudini e politica. Daniele Timpano ha esplorato le retoriche della politica italiana a partire dai cadaveri che ne hanno segnato la storia: quelli di Mazzini, Garibaldi, Cavour, Vittorio Emanuele in Risorgimento Pop quello di Benito Mussolini in Dux in scatola, quello di Aldo Moro in Aldo Morto. Per Elvira Frosini invece la morte passa per il proprio corpo in scena, restituito sempre come prodotto del biopotere: In Ciao Bella, è un corpo che si assopisce nella figura-archetipo della Bella Addormentata, proposta come simulacro di una Nazione sonnolenta e di un tempo senza “orizzonte di risveglio”. In Digerseltz, spettacolo sulle mitologie del mangiare, (altro tropo della compagnia) diviene pasto sacrificale per una società vorace che si ingozza di consumi, immagini e parole. In Zombitudine è accostato all’immagine eloquente di una fettina di prosciutto che i due attori consumano in scena leggendovi “la rappresentazione metonimica di un corpo che non c’è più”.
L’apocalisse tratteggiata da Elvira Frosini e Daniele Timpano, si radica nel ricco scenario degli zombie, gli esseri privati di volontà della religione vuduista, mutuati dall’immaginario cinematografico in morti viventi riottosi contro la civiltà consumistica, gli operai alienati dal lavoro che si ribellano alla classe dominante di odore marxista, gli individui asserviti al progresso tecnologico suggeriti da McLuhan, gli elettori impotenti privati del futuro come li legge Franco Berardi (Bifo).
Zombitudine - foto di Piero Tauro
Zombitudine si nutre di un terreno immaginifico consolidato, ma non si identificano né la parte di vittima né quella di carnefice. Non è mai chiaro infatti se gli zombie siano i produttori o i prodotti, il capitalismo finanziario o la massa che vi si adegua, gli immigrati che rubano il lavoro o la Nazione che li accoglie senza dar loro garanzie, il teatro che resiste all’infarto generale, o chi ne occupa gli edifici in nome del bene comune, come allude Daniele Timpano. 
Zombitudine è una chiave di lettura e al tempo di rifiuto del presente. Come spiegano i suoi autori: «Gli Zombi siamo noi [..] Il vecchio che non muore e il nuovo che non c’è». Davanti ad un sipario chiuso, la coppia Frosini/Timpano, bagnata da luci rossastre, parla direttamente agli spettatori, comunica di aver scelto di rifugiarsi in teatro per scampare all’ecatombe, luogo sicuro “essendo vuoto e pieno di morti”, come recita la regola n.13 del prontuario distribuito agli spettatori all’ingresso. Difendendosi in un luogo della cultura, i due attori, tra monologhi e dialoghi serrati che rasentano l’elenco, attendono l’arrivo di qualcosa o qualcuno che potrebbe smuovere gli equilibri del rifugio. Perché di nuovi equilibri ha bisogno il teatro, sembrano denunciare, che anziché vivere riesce solo a non morire. 
Zombitudine - foto di Piero Tauro
Attesa e rovesciamento sono i dispositivi su cui si regge l’intero spettacolo. I due autori in scena infatti, non hanno nulla da fare, se non “ammazzare” un tempo già morto mediante giochi di parole che cercano di definire il fuori minaccioso sempre più simile al dentro minacciato. La straziante attesa di chi “se non può fare nulla, allora non fa niente”, annulla, sia per gli attori che per gli spettatori, la differenza tra la paura dell’assedio e la speranza che arrivi quanto prima. E in effetti il fuori campo, evocato dalle voci amplificate dei due attori, appena aldilà del sipario, alla fine dello spettacolo si rovescia in campo. Scena e platea vengono invasi da zombie di manifestanti che portano al collo slogan sdruciti di rivolte fallite: “Come è zombie la prudenza”, ironicamente riferito al Valle o “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sugli zombi”.
A differenza di qualsiasi film o racconto sugli zombie che si rispetti però, il finale dello spettacolo tradisce la rivolta agognata: il sipario finalmente si apre svelando uno scenario postatomico in cui gli attori cianotici, avvolti da fumi e luci verde acido, prendono commiato dagli spettatori inghiottiti da un buio che odora di sconfitta. A pensarci bene però, torna in mente la frase iniziale dello spettacolo: «Se non siamo morti non cominciamo». E allora cominciamo rovesciando la sconfitta.
"

Zombitudine, una favola thriller
[ Giulio Baffi, 6 febbraio 2015, La Repubblica ]

 "Non cedono nemmeno per un momento alla stanchezza Elvira Frosini e Daniele Timpano, s/gradevole presenza sul palcoscenico del Piccolo Bellini, per costruire la loro favola assurda, il loro thriller fantastico, l'allucinato percorso in fuga, o forse in pausa, non si sa bene, da una quotidianità asfissiante. S'infilano come aggressivi clandestini della parola nel teatro, tra il sipario ancora chiuso e il pubblico in attesa ci sono loro, con le loro ansie e le loro insoddisfatta quotidianità. È "Zombitudine", piccolo delirio teatrale costruito per sussulti e iperbolici salti logici. Loro, l'uomo e la donna, si guardano intorno come per un duello finale. I sopravvissuti riusciranno a raccontare un poco delle loro speranze, delle delusioni e delle illusioni. Così il loro "non tutto ma di tutto" è come un'onda anomala che travolge lo spettatore e lo conquista, lo incuriosisce senza risolvere interrogativi, e tutto sommato, senza nemmeno chiarire quali sono le domande che è necessario porsi per sopravvivere in una realtà che sembra normale e invece forse è anomala. Ma tutto è un gioco, nella fluviale performance della coppia Frosini/Timpano che mette ansia e diverte. Cercando gli "zombie" troveremo volti di amici e nomi ben noti. E i sorrisi si trasformano, alla fine, in applausi. In replica ancora fino a domenica pomeriggio.


Zombitudine
[ Massimo Lechi, 02 dicembre 2013, Cinema e Teatro ]
"A occupare il palco ci sono solo il sipario, una valigia e due corpi: quello di un uomo riverso sul proscenio e quello di una donna in piedi, con la testa nascosta nel panno rosso. Sono entrambi ben illuminati, stinti e stropicciati come gli abiti giallognoli che hanno indosso, sospesi in un’immobilità irreale che sembra preludere a un rianimarsi improvviso, a uno scatto inconsulto. Puntualmente, dopo pochi istanti, lo spettatore viene travolto dal loro risveglio.
La prime parole pronunciate sono un allarme preoccupante: arrivano i morti viventi, è la fine, niente panico. Zombitudine [...] inizia così, con il corpo che prende vita e trascina se stesso – e ciò che lo circonda – nel mistero di un’apocalisse imminente. Il teatro è un bunker precario e il pubblico l’ultimo gruppo di fortunati che forse riusciranno a salvarsi dalla minaccia esterna che preme, che avanza a testa bassa. Gli zombi sono alle porte, stanno per morderci le caviglie, perderemo ogni cosa e l’esistenza di ognuno sarà risucchiata nel buio: la situazione, insomma, è al solito disperata ma tutt’altro che seria. Ai due protagonisti – e agli spettatori - non resta che attendere l’inevitabile tra un autoscatto da postare su Facebook, uno spuntino rancido e qualche sussulto orgasmico di rabbia e disperazione, attratti dal pericolo sempre più concreto (i non-morti bavosi e puzzolenti, come gli extracomunitari dipinti dalle propagande xenofobe) o forse finalmente risvegliati dalla consapevolezza di non essere mai stati altro che incubatrici di un morbo devastante (la zombitudine del titolo, che da sempre narcotizza le nostre vite di pasciuti italiani e occidentali). Alla stasi dell’assedio non può corrispondere, per contrasto, che lo sfaldamento del tempo teatrale in una miriade di a parte, di parentesi, di sbrodolamenti, di riflessioni a ruota libera, di interazioni con la platea, e persino di invocazioni, preghiere e lamenti. Il tutto in un saliscendi emotivo a tratti davvero vertiginoso, che conferma il talento della stralunata coppia di attori-autori, colti e spericolati iconoclasti con un debole per le retoriche impolverate e il materiale basso del pop cine-televisivo e musicale. Senza soluzione di continuità, infatti, al monologo segue il battibecco, all’esplosione verbale il silenzio, al gesto studiato il tarantolismo, all’accenno di coreografia l’inciampo, mentre nello spettatore il ridere più sbracato si alterna alla sorpresa per i continui cambi di tono, i continui salti di ritmo. Tra lo sghignazzo e lo sconcerto [...] Zombitudine si presta così a molte letture, tutte più o meno plausibili, tutte allo stesso modo rischiose, incomplete e in parte limitanti. Fioccano le definizioni possibili: happening surreale, sberleffo comico-orrorifico, esperimento meta-teatrale e meta-tutto, gioco beckettiano aggiornato all’epoca della telefonia mobile e dei social network, e infine storia d’amore, fusione definitiva di due destini di fronte a un gran finale apocalittico che è al contempo presa d’atto e rifiuto, fuga e resa, liberazione e annichilimento, mesta resurrezione e tramonto irreversibile. Non a caso, in conclusione – ma non vogliamo rivelare troppo – l’autodafé di questa irresistibile satira a circuito chiuso sulla necrosi dell’Occidente si spegne tra i fumi di un insospettabile e pudico romanticismo. In un intrecciarsi di dita ormai in cancrena che lascia, dopo tante risate, con il più amaro e tenero dei sorrisi."
 
A spasso con gli Zombie

[ Igiaba Scego, novembre 2014, Nazione Indiana ]
Zombitudine - foto di Sefora Delli Rocioli
Passo lento. Claudicante. Volti assenti. La strada è quasi vuota. Il gruppo avanza, lentamente, inesorabilmente. Qualche passante si gira, osserva, cerca di capire, non capisce. Due turisti israeliani chiedono alla polizia: “Ma stanno male questi? Perchè camminano così?”. Molti sono scioccati dalla presenza dei preti alla testa del lento corteo. “Perché dei preti scioperano? Il Vaticano ora fa pure scioperare?”. Ognuno cerca di leggere quei corpi con le proprie lenti, la propria angolatura di pensiero.

Il corteo avanza. Lento. Punti interrogativi si formano sopra la testa delle persone. “Oh povera Italia” dice qualcuno “siamo davvero ridotto così?”. I più giovani pensano invece ad Halloween che molti però pronunciano Aulin come la medicina. I giovani sghignazzano. Le turiste tedesche sono le più entusiaste. Una grida “Ehy guardate! Gli zombie! Gli zombie”. Qualcuno tira fuori gli smartphone. Ed ecco che un fuoco di flash colpisce il lento corteo dei non morti.

Il passo non cambia. È lento. Un passo che non sa che fare di se stesso. Avanza, ma perché non c’è alternativa. È come in quella gag dei Monty Python, The ministry of silly walks, dove ognuno cammina come gli pare. E poi ci sono i cartelli. In un primo momento sembrano solo cartelli eccentrici, qualcosa su cui farsi sopra una bella risata. Ed ecco che uno zombie, perché di zombie si tratta, mostra quasi con orgoglio il suo “Mangio solo vegani”. Una signora si arrabbia. È vegana. Si sente offesa. Altri invece appunto ridono. Ma poi guardandoli da vicino questi cartelli non sono poi così allegri. “Marcio su Roma” per esempio inquieta, perturba l’anima e in un attimo la città intorno diventa aliena.

Il lento corteo si dirige verso Montecitorio. Verso il palazzo. Verso il potere. Sembra quasi una scena di Zombie 2 di Lucio Fulci, quando gli zombie di Matul si avviano a invadere New York. Anche loro vogliono invadere il palazzo?

Cosa vogliono fare? Qual’è la loro meta? E il loro scopo?

In realtà di mete questo attraversamento urbano stile zombie ne ha avute molte: Via del Governo Vecchio, Via del Pigneto, Piazza Navona, Campo dei Fiori, Piazzale Aldo Moro. E in generale il lavoro ha toccato un po’ tutta Italia: Rieti, Asti, Milano, La Spezia. Il laboratorio Corpo Morto diretto da Elvira Frosini e Daniele Timpano è legato allo spettacolo teatrale Zombitudine http://zombitudine.wix.com/zombitudine, della stessa compagnia, che andrà in scena nell’ambito di Roma Europa Festival al teatro dell’Orologio dal 2 al 23 Novembre a Roma. La figura dello zombie è il centro di tutta la narrazione. Uno zombie che è legato all’attualità del nostro presente statico, ma anche alla forza di una subalternità che non si arrende all’evidenza.

“In Zombitudine si affronta un vuoto” ci dice Elvira Frosini con la sua voce calda e profonda “un vuoto fatto di paure mutevoli che non sai dove indirizzare. Ed è così che l’emotività liquida in cui siamo produce una grande rabbia, una grande sensazione di ingiustizia. Però c’è anche l’impossibilità assoluta di reagire. Per questo si produce una rabbia repressa che noi nello spettacolo definiamo rabbia educata”.

Ma lo zombie non è solo immobilità. È paradossalmente anche azione.


Zombitudine a Montecitorio foto di Laura Toro
Per preparare lo spettacolo Elvira Frosini e Daniele Timpano si sono letteralmente “sciroppati” migliaia di film horror, da Romero a Walking dead, ma hanno anche riflettuto molto su “Sora nostra morte corporale” ed ecco che il Saramago di Le intermittenze della morte o Jean Baudrillard di Scambio Simbolico e la morte fanno capolino nella loro riflessione.

Lo zombie poi a vederlo da vicino abbraccia una categoria Gramsciana. È il subalterno per eccellenza. Colui che è stato domato, sodomizzato, privato della sua umanità. Non è un caso che la parola sia di origine africana. Originariamente zombie nella lingua Bantu del Kikongo indicava l’idolo,mentre nel mondo Kimbundu zombie, nzambi, era uno degli appellativi del Dio serpente. La parola è poi approdata attraverso le navi negriere, e il dolore incommensurabile di chi era stato reso schiavo, nelle isole di Haiti dove ha cominciato ad indicare i non morti, i non più vivi, esseri a metà telecomandati da uno stregone, il bakor, che poteva fare di loro ciò che voleva.

La connessione tra lo zombie e la subalternità coloniale è evidente. Lo zombie non poteva morire perchè il potere lo voleva attivo, da sfruttare. Lo zombie serviva come lavoratore nei campi di cotone, come corpo da stuprare, come essenza su cui riversare le proprie frustrazioni. La non morte era di fatto la condizione coloniale. Lo zombie poteva in questo senso solo subire. Però poteva anche essere il catalizzatore di paure che il potere aveva verso le masse. Gli zombie potevano fare massa, il subalterno poteva unirsi, come nel quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo e forse cambiare la civiltà. Lo zombie era il dannato descritto da Frantz Fanon che reclamava finalmente la sua terra.

Elvira Frosini, con il collega e il compagno di vita Daniele Timpano, è consapevole di tutto ciò, consapevole delle varie letture che attraversano il corpo zombie.

“Chi sono questi che arrivano? Che succederà? Da una parte è il mondo povero che arriva, ma anche la casta che ci sfrutta. Lo zombie è uno scatolone che contiene un po’ tutto. Cambia a seconda di chi lo guarda. È una figura che può essere ambivalente. Da una parte è una minaccia e dall’altra una figura salvifica. Questa figura nello spettacolo slitta continuamente da una cosa ad un’altra. A volte li descriviamo belli, eleganti, fascinosi, con gli abiti firmati, mentre altre volte sono sporchi, cenciosi, puzzano. Arriviamo a descriverli anche in fase di decomposizione”.



Ora il lento corteo è arrivato davanti al palazzo. Sembra quasi impossibile, ma sta succedendo. Intorno i lavoratori del porto di Taranto che protestano per i tanti problemi che attanaglia una dei più grandi snodi navali del Sud. C’è anche la polizia. Parecchi giornalisti. Gli sguardi sono in parti divertiti, in parte perplessi. Quando Daniele Timpano prende in mano il megafono e comincia a fare il suo discorso l’aria si fa improvissamente rarefatta. Il momento è serio. “Marciare, non marcire” urla Timpano al palazzo. Un brivido attraversa la schiena dei manifestanti di Taranto. È proprio il loro sguardo quello che diventa più serio. Al “Mortacci vostri” scandito dallo zombie Timpano scatta un applauso fragoroso. Ma quel “Mortacci vostri” non è solo un’accusa al palazzo. È un’accusa anche all’immobilità degli italiani. Alla società nel suo insieme.

Lo “Lo zombie” sottolinea Elvira Frosini “può avere una funzione salvifica proprio grazie alla sua basicità, alla sua inabilità. In fondo tutto questo è una sorta di rifiuto/rifugio da un mondo troppo complesso, veloce, che ci vuole sempre pronti, sempre svegli, sempre dentro, sempre sull’onda. È una lentezza che aiuta a prendere distanza, prendere contatto con se stessi”.

Zombitudine è legato idealmente ai lavori precedenti della compagnia, Digerseltz e Aldo Morto. Ma mentre in quei spettacoli l’approdo era il vuoto, con Zombitudine Frosini-Timpano affrontano l’interno di questa bolla inspiegabile. E poi anche se il tema storico non è esplicitato (rispetto ad uno spettacolo come Aldo Morto legato ad un riconoscibile, nonché famoso fatto di cronaca, quello del rapimento Moro), la storia è il collante dell’intero spettacolo. Frosini e Timpano mettono in scena di fatto la propria (ma anche la nostra) perturbante relazione con la storia. La citazione di Franco Moretti “il represso, dunque, ritorna: ma travestito da mostro” è perfettamente applicabile al lavoro di Frosini-Timpano.

Ed ecco che ogni zombie racchiude in sé le umiliazioni di una storia italiana fatta di omertà, ingiustizie, stragi, corruzione. 



Timpano finisce il suo discorso. La platea spontanea che si è formata intorno a lui applaude. Quel battere di mani frenetico e insensato è in quel momento un atto estremo di liberazione. La tensione è alta. Ed ecco che parte l’inno di Mameli. Nessuno degli zombie canta. È il segnale che si deve lasciare la postazione. Una marcia al contrario questa volta dando le spalle al palazzo.

Perchè forse non è lì la soluzione."



Zombitudine, la non morte ti fa teatrale
[ Matteo Brighenti, 27 novembre 2014, PAC ]


"Il palcoscenico è la tomba d’aspetto di una volontà sconfitta. Quelli che non vanno a teatro sono più di quelli che ci vanno, come i morti crescono più dei vivi. Sempre di più. A teatro non si riesce a fare niente, non si può smuovere nulla, si può solo immaginare il coraggio di addormentarsi e cercare il giorno anche nella notte degli occhi sbarrati. Essere zombi diventa quindi una ragione di vita, un cammino dondolante di conoscenza, una speranza che Elvira Frosini e Daniele Timpano praticano in Zombitudine con la forza e la disperazione degli ultimi tentativi di massaggio cardiaco su un corpo morente. La pagina chiara e inconfondibile di una grande prova d’attori. Per filo, per segno, per gesto.
Visto un anno fa in prima nazionale alla Tosse di Genova, lo spettacolo scritto, diretto, prodotto e interpretato dal duo romano, coppia di fatto teatrale e di diritto matrimoniale, si conferma anche al suo recente debutto all’Orologio di Roma, all’interno di Romaeuropa Festival, un lavoro adulto fatto da due adulti, con la freschezza, la spontaneità e la rabbia autodistruttiva dei giovani più giovani.
Il tema è di genere, da film di serie B o anche B-movie: l’Italia è al centro della conquista degli zombi. Tutta apparenza, da scartare come un regalo di Natale, una finta, un doppio passo per stordire i pregiudizi sulla distanza dal gusto del presente di chi fa teatro per vivere. Frosini e Timpano, infatti, non scelgono un luogo qualsiasi dove rifugiarsi e, nel frattempo, raccontare l’invasione, si trovano in una sala, dove sono pagati per essere attori e il pubblico paga per essere spettatore. Recitano, ognuno dalla propria posizione, il limbo confortevole e atroce di scelte che non possono cambiare, perché non sanno cosa prendere in cambio. Non avere scelta è il punto fermo della Zombitudine.
La durata di uno spettacolo è l’unico progetto di vita possibile, oggi, per un teatrante? Frosini e Timpano, allora, si rappresentano reclusi dalla scenografia in palcoscenico, artisti girovaghi con la valigia in mano, messi spalle a un grande sipario fané (le scene e i costumi sono di Alessandra Muschella). Lì, dietro quella tela, premono gli zombi, cioè la fissità dei ruoli, in definitiva l’istituzione stessa del teatro. Per spaventarli puntano tre dita verso il nulla e urlano “bang, bang!”, niente di più, niente di diverso le loro pistole, nonostante il gesto ricordi le P38 che sparavano pallottole vere come il piombo in quel nostro terrore ’70. La loro bravura sta nel procurarsi un rimpallo sempre favorevole tra l’illusione in pubblico e lo sconforto nel privato, riescono a tenere insieme la vista sul particolare e quella opposta sul generale, come certe iguane che muovono gli occhi l’uno indipendentemente dall’altro. Spesso incitano la platea alla rivolta, ma è coercizione, sono slogan forzati, senza convinzione: gli spettatori si aspettano di vedere l’azione, non di agire.
Il dopo non c’è e il prima passa. Fin qui, dunque, possiamo dire che i due hanno provato a scappare dalla loro scelta obbligata, hanno costruito lo spettacolo sull’attesa di uno spettacolo. Una volta, però, che anche il fuoco d’artificio dei finti zombi che invadono la platea si è spento, non possono più rifiutarsi di calpestare tutto il palcoscenico e non soltanto il proscenio, non possono più rigettare il vincolo inscindibile tra scena e attore: il personaggio. 
Calano le luci in sala, tenute accese dall’inizio per marcare la ricerca di un protagonismo della platea, si apre il sipario e comincia la Zombitudine propria di Frosini e Timpano. Illuminati da un taglio spettrale, forse dello stesso colore verde che Pirandello avrebbe voluto per il finale dei Sei personaggi in cerca d’autore (l’ideazione e la realizzazione tecnica delle luci sono di Marco Fumarola e Daniele Passeri), i due recitano le parti di zombi e si stringono, si sorreggono l’un l’altro. Ripartono da una dichiarazione disperata all’amore e all’unità dei corpi e degli intenti, stare ed essere insieme, contemporaneamente. Solo così possono mettersi in scena, restando se stessi. E tenendosi per mano riusciranno pur a sbucare felici da qualche parte nel futuro. Anche se il desiderio è sotto sfratto di uno Stato di cose che non trova requie alla decomposizione."

Zombitudine: Frosini Timpano e la paura della diversità
[di Simona Spaventa, 6 novembre 2015, La Repubblica]

"Il teatro irregolare della coppia Daniele Timpano-Elvira Frosini ci ha abituati a incursioni spiazzanti e ruvide nei miti più lontani del contemporaneo, da Mazinga Zeta ad Aldo Moro. Ora tocca ai morti viventi. In Zombitudine i due si immaginano assediati all'interno di un teatro insieme agli spettatori, in attesa dell'irruzione degli zombi che dominano l'esterno. Ironia e dramma si mescolano nella pièce-happening dove i due autori-attori, stretti per quasi tutto lo spettacolo nello spazio claustrofobico del proscenio mentre sbirciano atterriti tra le pieghe del sipario, incarnano paure diffuse dell'oggi: il diverso, l'immigrato, il nero. E se a tratti il gioco si fa sgangherato, lo salva la lucisa disperazione dei due guitti e la loro capacità di sorprendere e non perdersi in un calderone postmoderno di cinema trash e pensieri intimi sulla morte, scatti di intolleranza e grido di dolore di una generazione eternamente precaria, fotografia di un mondo addomesticato e frustrato dove i morti viventi siamo noi".
  

Zombitudine: un'analisi stralunata della vita
[di Nicoletta Cavanna, luglio 2014, Teatro.it ]
"I dialoghi sono surreali e affannati, interrotti da continui allarmi che generano panico e reazioni convulse [...] L’atmosfera è esilarante, Elvira Frosini e Daniele Timpano enucleano in questa situazione paradossale una quantità di elementi, che rimandano alla vita passiva e stereotipata non molto dissimile dalla non vita. La confusione dilaga sia nell’agitazione esasperata e molto efficace sul piano scenico, sia nel contenuto della narrazione, che lascia nel dubbio lo spettatore su quale sia l’identità dei protagonisti, quale sia l’apocatastasi temuta e chi sia il nemico da combattere. Non è risparmiata alcuna bruttura di azione o giudizio: i protagonisti, se avessero un figlio, lo mangerebbero per sfamarsi durante l’assedio, confermando il sospetto della mancanza di confine tra il bene e il male, l’umanità dei vivi e la crudeltà degli zombi. [...] Non ci sono buoni o cattivi, solo individui morti e stanchi, laddove la morte forse, ma il forse è l’interrogativo non risolto, può costituire un inizio. [...] un testo ricco e propositivo di spunti, un ritmo eccitato e coinvolgente e un’interpretazione ottima di due attori che hanno proposto un tema sfruttato dalla narrativa e dalla cinematografia in modo atipico, caustico e mirato ad aprire riflessioni ad ampio raggio. 
Splendidi Elvira Frosini e Daniele Timpano nella lucida pazzia e nella capacità di coinvolgere e attirare il pubblico in un grosso inganno collettivo, che diverte inquietando."

 

Una “Zombitudine” tutta all’italiana quella che raccontano Timpano e Frosini
[ Tommaso Chimenti, 29 dicembre 2013, Rumor(s)cena ]
[...] "I due ultimi uomini sopravvissuti all’ecatombe si sono rifugiati, assieme ad un manipolo, non scelto ma totalmente casuale di persone, dentro un teatro. Fuori avviene l’apocalisse, l’ultima notte sulla terra. Non aprite quella porta. Da fuori premono, Romero docet, per entrare e mangiarsi l’ultima carne tremula e fresca. La cultura, il teatro, la parola, la lettura, i classici li salveranno? Illusi. [...] Siamo morti? L’Italia è morta? Gli italiani sono morti? Gli europei sono morti? La Grecia antica è morta? Il teatro è morto? La sopravvivenza è soltanto un punto di vista. Siamo vivi ma siamo morti al tempo stesso. Se la Frosini è la Sposa Cadavere di Tim Burton in movenze da Charlie’s Angel, Timpano è più vicino ad un fumetto, tipo l’amico di Scooby Doo oppure somiglia ad Indiana Jones, cercatore e scopritore dall’interno del morbo-virus che tutto e tutti attanaglia, questa morte prima della morte, con basette alla Elvis muovendosi impomatato come una parodia di 007. Urlano “Prendete posizione”, e sembrano Steve Jobs che ululava di essere arrabbiati e folli. Ah, chi lo è più? Siamo vecchi, siamo marci. La Resistenza di “Bella Ciao” che risuona ha perduto la sua battaglia, stanno arrivando, hanno occupato tutti i posti di potere. Il futuro è una parola vuota, senza significato. Anche se Timpano è il nostro Woody Allen. Che diceva infatti: “Si vive una sola volta. E qualcuno neppure una”. E anche: “Morire e’ una delle poche cose che si possono facilmente fare stando sdraiati”. Oppure: “Non mi interessa l’immortalità attraverso l’arte: io non voglio morire”. Infine: “Non credo in una vita ultraterrena. Comunque porto sempre con me la biancheria di ricambio”.

Zombitudine
[ Emanuela Ferrauto, febbraio 2015, Centro Studi del Teatro ]


Zombitudine - foto di Piero Tauro
"Ci perseguitano da giorni. Ci scrivono. Ci osservano. Ci alitano sul collo. Non possiamo fare a meno di vederli, di ascoltarli, di essere presenti. Campagna pubblicitaria e diffusione massiccia, Daniele Timpano ed Elvira Frosini non ci lasciano scampo. Hanno invaso Napoli da giorni, contendendosi in maniera amichevole il Teatro Bellini: loro nella sala del Piccolo, mentre nell’altra sala, durante gli stessi giorni ( 3-8 febbraio), le urla di Polifemo e di Ulisse, “intervistati” dall’acclamata Emma Dante, rimbombano tra le parole dei nostri “zombie”. Dei loro zombie. Perché gli zombie, in effetti, siamo noi. Il sentore lo avevamo avuto da tempo, spesso avevamo anche denunciato l’apocalittica stasi del popolo italiano, e forse dell’umanità intera. Ed in effetti attraverso questo spettacolo ci sentiamo davvero degli imbecilli.  Ci spronano, ci pungolano, ci spingono a reagire, ma niente. Siamo davvero morti? Alcuni spettatori rispondono, ma ridere è davvero la cosa più consona in questo contesto? L’ironia di Frosini e Timpano non ci lascia scelta, bisogna sorridere. Ma ridere apertamente, davanti ad una dolorosa descrizione di noi stessi, forse è davvero troppo. Pensavate di trovare ambientazioni cimiteriali, corvi, dark atmosphere, fantasmi, spiritelli e zombie? Ma no!
Le parole dei due autori-attori sono una cascata, un vortice in piena. Un doppio palcoscenico: l’idea geniale di un semplice tendone rosso che divide la scena. Al di qua la platea, noi, e loro che si affannano a salvare il mondo. Al di là il buio e il mondo reale. Insomma, i due “supereroi made in Italy” ci spiegano la situazione. Serrati dentro un teatro, luogo in cui ci ritroviamo anche noi, si attende la fine di tutto o la rinascita, immaginario Godot simbolico. Gli zombie sono là fuori, arrivano ( o no?). Il riferimento esplicito ai più famosi film americani è evidente, ma diventa ancora più ridicolo proprio perché parliamo di ciò che viviamo quotidianamente. Ci ritroviamo ad assistere alla più crudele satira su noi stessi. Avete mai pensato quanto possa essere terrificante?



L’intera costruzione del testo e della messinscena ricorda i cartoons, le macchiette, gli sketches comici americani, i film muti,  “Lost” e le serie televisive, i predicatori ed i comizi politici, ma soprattutto ricorda i giochi che si fanno da bambini. I due attori sono due falsi giovincelli che si ostinano a credere ancora nella guerra contro la stasi mentale e culturale, due attori che vivono e vivranno di teatro, fino alla morte, come unica salvezza del mondo. E si affannano per farcelo capire in tutti i modi, disperati, dolorosi e comici insieme, e a volte anch’essi dubbiosi. La missione appare come un gioco: sparatorie finte – le pistole sono le mani – morti finte, quinte oscure, torce, immaginazione. Lo spettacolo è necessariamente costruito sulla reazione del pubblico ed è davvero complesso, e paradossale, evitare che gli spettatori reagiscano eccessivamente, altrimenti sarebbe inutile additarli come “zombie”.  Escamotage è la distinzione: “quelli come noi”, cioè come i due protagonisti, per distinguere coloro che reagiscono, “zombie” coloro che invece non lo fanno. Ma sembra che i due attori vadano sul sicuro: qualche risata, qualche accenno, qualche risposta dalla platea.
I temi trattati in questo lavoro spaziano dalla politica, ricordando i riferimenti alla Destra, alla Sinistra e al Centro, attraverso l’invocazione <<prendete una posizione!!!>>, di cui naturalmente  molteplici sono i significati ( giocando sul concetto di “posizione”, sopra una valigia-sgabello,  unico oggetto di scena, oltre al microfono), fino alla crisi economica e culturale. Argomenti, dunque, di cui sentiamo parlare quotidianamente e che spesso ritornano in scena. Questo potrebbe far storcere il naso o diventare un’arma a doppio taglio: il pubblico è stanco di pensare alla crisi e di vederla rappresentata, seppur simbolicamente, anche a teatro. Lo spettacolo cerca, quindi, di non divagare eccessivamente sul tema politico, ma si concentra insistentemente sul teatro, indicato come luogo di salvezza, e sugli effetti comportamentali della nostra società, dai selfie al vestiario.
I due protagonisti scelgono di rinchiudersi in un luogo in cui nessuno probabilmente riuscirà a trovarli: terribile ironia!!! Inoltre, semmai i rappresentanti del mondo esterno dovessero cercarli, e  poi trovarli,  sarebbe un ulteriore disastro, poiché gli Zombie entrerebbero in un luogo sacro e contagerebbero anche loro. Pare che non esista soluzione alcuna a questa apocalisse metropolitana. La morte appare comunque ed inesorabilmente positiva, proprio perché letta attraverso gli occhi di una società che non “prende posizione”. Uno spettacolo costruito sul paradosso.
Che cos’è dunque Zombitudine? È uno status della nostra contemporaneità, è un “non essere”, è un non vivere e un non morire, è una malattia. Siamo vivi o siamo morti? La soluzione ci è svelata alla fine dello spettacolo, in cui i due protagonisti si arrendono alla Zombitudine, continuando ad anelare vita ma perdendo i pezzi, poiché vanno in putrefazione e si disintegrano.  La comicità si scioglie nell’amarissima immagine di una vita e di un amore, di un ideale e di un pensiero, mai morto, mai vivo, ma putrefatto. Il testo sembra dividersi in due parti, o meglio in tre: una prima in cui si stimola soprattutto la reazione del pubblico, una seconda in cui la lotta culturale e sociale contro il mondo diventa missione vera e propria, una terza più intima, seppur caratterizzata da ironia. Gli attori e i personaggi sono quegli esseri eterni che l’eternità conquistano sul palcoscenico e che poi, a causa nostra, zombie ormai incalliti, marciscono.
Nonostante alcuni momenti appaiano ripetitivi e conditi da luoghi comuni, cadendo quindi in quello stesso vortice contro cui ci si oppone nel corso dello spettacolo, l’originalità sta soprattutto nell’idea di riflessione bambinesca e fumettistica sul disastro culturale e sociale della nostra contemporaneità. Pensare che fra molti anni, qualora si leggesse e si venisse a conoscenza che già nel 2013 il pubblico sia stato ironicamente definito “affetto da zombitudine”, fa riflettere.  Fisicamente faticosa l’ interpretazione dei due protagonisti, che riportano sulla scena lo stile “Frosini- Timpano”, caratterizzante non solo la recitazione, ma soprattutto le movenze corporee. Poetica ed intensa la Frosini, disarmante, sarcastico, giullare e dai movimenti bambineschi, Timpano."

Zombitudine
[Camilla Tagliabue, luglio 2014, Il Fatto quotidiano]

"Aspettatore, che facciamo? Aspettiamo!", dicono i due zombi in proscenio, davanti a un sipario chiuso, color fragole e sangue: i due sono Elvira Frosini e Daniele Timpano, autori, registi e interpreti di una paradossale-paranormale pièce, intitolata appunto Zombitudine. [...] Spettacolo giustamente ambizioso che tenta di raccontare il "mestiere di morire", la catalessi della società odierna, l'anestesia della vita quotidiana" [...] La facilità e felicità di scrittura, eloquio e sproloquio della coppia sono ormai assodate, così come la caratura attoriale di lei, bravissima, e la verve comica di lui, surreale. [...] Eleggendo lo Zombi a metafora dell'uomo contemporaneo, gli artisti ne stigmatizzano la condizione di semi-vita e morte permanente, imbastendo una commedia ossessivo-compulsiva sul nuovo spettro che si aggira per l'Europa"

Zombitudine
[ Giulio Sonno, novembre 2014, Paper Street ]
Zombitudine - foto di Piero Tauro
Esiste una rabbia che nasce dall'odio, dal disprezzo, dal desiderio di vendetta, e poi c'è un'altra rabbia, soffocata, che invece nasce dal dolore, dall'impotenza, da un'empatia che viene prima frustrata e poi mortificata, e ch'eppure cela un profondo impeto d'amore. La rabbia "educata" di Frosini/Timpano è di questo secondo tipo. Certo, il titolo dello spettacolo sembrerebbe presupporre tutt'altro e chissà forse è davvero così, ma osservando Zombitudine oltre l'evidente metafora del morto vivente quale individuo totalmente spersonalizzato, inconsapevole e massificato, si trova proprio questo, un sentimento combattuto fra l'empatia e la frustrazione, onesto ma esasperato, che non sa ancora in cosa debba trasformarsi. Elvira Frosini e Daniele Timpano ci appaiono in proscenio a sipario chiuso, oscillanti lungo una soglia fra la non-vita e la non-morte. Sono barricati, isolati, trincerati, in un'attesa che è temuta e invocata al tempo stesso, perché gli zombie li circondano, sono ovunque e arriveranno anche lì, anche in quella linea di confine che ormai tanto nell'arte quanto nella quotidianità è diventata l'unico non luogo dove provare a esserci. Oltre tale vitale e deprecabile precarietà, ci sono "loro", quegli strani esseri che hanno cominciato a decomporsi e corrompersi in anticipo sulla morte. La lunga attesa creata non porterà a nulla, ma non potrebbe essere altrimenti. Già, perché lo spettacolo è incardinato su una denuncia che in quanto tale agisce per constatazione: non promette un'evoluzione ma mira a svelare un fenomeno. Se da un lato, dunque, Zombitudine sembrerebbe avvitarsi in un'ironia che si fa puro e amareggiato sarcasmo, dall'altro grattando via la superficie della superata retorica zombie emergono piccoli preziosi momenti di grande umanità, in cui i due assediati smettono di guardare ossessivamente l'esterno e scandagliano dentro sé stessi, per scoprire, finalmente, che "noi" e "loro" sono la stessa cosa. 
Come diceva Emerson - citiamo a braccio -, le masse saranno sempre masse finché continueremo a vederle come tali: cominciamo a dare un nome a ogni singolo individuo, a considerarlo uno e uno soltanto, ad accoglierlo e a scoprirlo, e le masse scompariranno. Questa grande sensibilità "empatica" a Frosini/Timpano certo non manca, ma la trappola del dolore, dell'impotenza, della rabbia è sempre dietro l'angolo e spesso li tiene sotto scacco. Dopotutto però, anche gli zombie, forse, presi uno a uno, non devono essere poi tanto male!

Esiste una rabbia che nasce dall'odio, dal disprezzo, dal desiderio di vendetta, e poi c'è un'altra rabbia, soffocata, che invece nasce dal dolore, dall'impotenza, da un'empatia che viene prima frustrata e poi mortificata, e ch'eppure cela un profondo impeto d'amore. La rabbia "educata" di Frosini/Timpano è di questo secondo tipo.

Certo, il titolo dello spettacolo sembrerebbe presupporre tutt'altro e chissà forse è davvero così, ma osservando Zombitudine oltre l'evidente metafora del morto vivente quale individuo totalmente spersonalizzato, inconsapevole e massificato, si trova proprio questo, un sentimento combattuto fra l'empatia e la frustrazione, onesto ma esasperato, che non sa ancora in cosa debba trasformarsi.

Elvira Frosini e Daniele Timpano ci appaiono in proscenio a sipario chiuso, oscillanti lungo una soglia fra la non-vita e la non-morte. Sono barricati, isolati, trincerati, in un'attesa che è temuta e invocata al tempo stesso, perché gli zombie li circondano, sono ovunque e arriveranno anche lì, anche in quella linea di confine che ormai tanto nell'arte quanto nella quotidianità è diventata l'unico non luogo dove provare a esserci. Oltre tale vitale e deprecabile precarietà, ci sono "loro", quegli strani esseri che hanno cominciato a decomporsi e corrompersi in anticipo sulla morte.

La lunga attesa creata non porterà a nulla, ma non potrebbe essere altrimenti. Già, perché lo spettacolo è incardinato su una denuncia che in quanto tale agisce per constatazione: non promette un'evoluzione ma mira a svelare un fenomeno. Se da un lato, dunque, Zombitudine sembrerebbe avvitarsi in un'ironia che si fa puro e amareggiato sarcasmo, dall'altro grattando via la superficie della superata retorica zombie emergono piccoli preziosi momenti di grande umanità, in cui i due assediati smettono di guardare ossessivamente l'esterno e scandagliano dentro sé stessi, per scoprire, finalmente, che "noi" e "loro" sono la stessa cosa.

Come diceva Emerson - citiamo a braccio -, le masse saranno sempre masse finché continueremo a vederle come tali: cominciamo a dare un nome a ogni singolo individuo, a considerarlo uno e uno soltanto, ad accoglierlo e a scoprirlo, e le masse scompariranno. Questa grande sensibilità "empatica" a Frosini/Timpano certo non manca, ma la trappola del dolore, dell'impotenza, della rabbia è sempre dietro l'angolo e spesso li tiene sotto scacco.

Dopotutto però, anche gli zombie, forse, presi uno a uno, non devono essere poi tanto male! - See more at: http://www.paperstreet.it/cs/leggi/5085-Zombitudine_-_FrosiniTimpano.html#sthash.JAiJR5x5.dpuf
Zombi chi può, disse l'attore
[ Michele Di Donato, 6 febbraio 2015, Il Pickwick ]


Lontano il tempo in cui all’attore si destinava un manto di terra sconsacrata a fargli sepoltura; oggi l’attore è un “non morto” che attraversa la vita; di più, un uomo che vive la condizione di morto vivente attraversando la scena, il suo feretro si chiama teatro. Bisogna morire per vivere; morire e farsi zombi (senza la e finale), perché è su un presente decomposto che si può foraggiare la costruzione di un futuro possibile.
Elvira Frosini e Daniele Timpano sono gli psicopompi che conducono il gioco in assito; sipario chiuso, i due attori stazionano in ribalta, mentre si spegne l’eco sonora di estratti da cinema di genere, che rimanda a Bava, a Fulci, a Romero. Teatro della decomposizione, che dichiara – e lo fa dichiarandosi ripetutamente teatro – la propria putrescenza, lo svilimento del ruolo e del lavoro, che costringe a non vivere, o a sopravvivere da morti viventi. Confinati in un “aldiquà” scenico, un microfono ad amplificare la voce conferendole il rimbombo estraneo di un altrove, il sipario chiuso sembra dividerli dalla loro professione: hanno saltato il fosso, si sono asserragliati, da non più vivi, ma ancora attori (e forse per questo meno vivi) in uno spazio teatrale, rifugio ideale come da decalogo distribuito in platea, sicuro ricetto per chi, teatrando, è diventato zombi; e quale luogo può essere più tetro e calzante di un teatro semivuoto? Non ce ne vogliano Daniele Timpano ed Elvira Frosini, ma il loro Zombitudine, in un teatro in cui loro stessi contano sulle dita quattordici spettatori, sembra quasi risuonare come un complemento drammaturgico, dal sibilo sinistro, funzionale alla descrizione di questa iperbole metateatrale che prende forma in proscenio. (Nota a margine: in termini strettamente pratici e concreti dispiace che una scelta non oculata da parte del Bellini – peraltro encomiabile per il livello complessivo della propria offerta qualitativa – faccia coincidere le date di Zombitudine col più “ingombrante” Io, Nessuno e Polifemo di Emma Dante, penalizzando oltremisura la sala piccola).
Ma torniamo agli zombi, lasciati in ribalta, che son lì che ci aspettano, asserragliati in teatro, e asserragliati a difesa dell’indifendibile, baluardi di se stessi che s’inventano una resistenza ulteriore, traslando la vita nella non-morte. E non è affatto un caso che ciò avvenga in un teatro – mentre è invece un caso, deprecabile, che il teatro non sia pieno – spazio in cui si è zombi per vocazione, sospendendo la vita e rimandando la morte per il tempo di una rappresentazione. Così come non è un caso che tutto il “kit di sopravivenza” (perché paradossalmente anche uno zombi deve sopravvivere…), sia contenuto in una valigia, unico accessorio di scena, rimando ulteriore alla dimensione dell’attore. Dimensione attoriale che è cifra costante ed ininterrotta dell’azione (poca, ma fondamentale) e del contenuto verbale (tanto ed in esubero) di Zombitudine: si va dall’allocuzione intermittente e continua agli spettatori (“Signori, per favore, dateci una mano”, detto da Timpano mentre la Frosini protende un braccio verso il pubblico), alle notazioni metateatrali (“Dovevamo lavorare meglio con la comunicazione”), alla gestualità e alla verbalità  evocative (le mani diventano pistole, la voce emette gli spari), alla consapevolezza persistente di essere attori in recita, categoria per la quale non esiste un welfare e che ha trovato rifugio estremo in una bara chiamata teatro. Attori in vita, attori oltre la morte, attori ovvero “derelitti, depressi, disperati”, in un’iperbole tragicomica, tutta dipinta sul volto e nella gestualità di Timpano, tutta resa dalle movenze della Frosini, il dialogare serrato e bizzarro dei quali racconta di uno spazio chiuso all’interno del quale non si è più al sicuro, nel quale si è diventati merce da commerciare, l’attore “prodotto semilavorato”, conseguenza della non scelta, della mancata presa di posizione; Timpano e la Frosini battono e ribattono proprio su questa necessità della scelta, la cui mancanza sembra essere individuata come fondamento basilare della condizione deprecata dell’arte; insistono sul senso della coscienza etica che si contrappone all’apparenza estetica, alle mutande firmate, alle foto postate. Drammatica, putrescente, in avviato stato di decomposizione la situazione in cui versa il teatro; oltre il sipario c’è la sua fine, c’è la “zombitudine” elevata a potenza: il sipario si alza, luci di un verde intenso, spettrale ed irreale, riverberano un fumo invadente, “siamo ridotti all’osso”, dicono in scena mentre i loro corpi procedono a passi lenti verso la fine dello spettacolo, e riducendosi, decomponendo, abbracciano tenendosi per mano il comune destino: essere attori, essere zombi, sopravvivere in scena sera dopo sera, fino allo spegnersi dell’eco dell’ultimo applauso.
Partitura sghemba, che sembra preludere ad uno sviluppo che invece non avrà luogo, coerente col proprio status zombi, Zombitudine sembra voler scuotere dal torpore della rabbia educata, quella per la quale alle parole siamo incapaci di far seguire le azioni, e il sonno dell’azione genera zombi.
Allo spegnersi delle luci, corpi consunti sulla scena si riconsegnano alla vita del non teatro, senza dimenticare di essere attori, ricordando che esserlo oggi vuol dire essere zombi.  
Esiste una rabbia che nasce dall'odio, dal disprezzo, dal desiderio di vendetta, e poi c'è un'altra rabbia, soffocata, che invece nasce dal dolore, dall'impotenza, da un'empatia che viene prima frustrata e poi mortificata, e ch'eppure cela un profondo impeto d'amore. La rabbia "educata" di Frosini/Timpano è di questo secondo tipo.

Certo, il titolo dello spettacolo sembrerebbe presupporre tutt'altro e chissà forse è davvero così, ma osservando Zombitudine oltre l'evidente metafora del morto vivente quale individuo totalmente spersonalizzato, inconsapevole e massificato, si trova proprio questo, un sentimento combattuto fra l'empatia e la frustrazione, onesto ma esasperato, che non sa ancora in cosa debba trasformarsi.

Elvira Frosini e Daniele Timpano ci appaiono in proscenio a sipario chiuso, oscillanti lungo una soglia fra la non-vita e la non-morte. Sono barricati, isolati, trincerati, in un'attesa che è temuta e invocata al tempo stesso, perché gli zombie li circondano, sono ovunque e arriveranno anche lì, anche in quella linea di confine che ormai tanto nell'arte quanto nella quotidianità è diventata l'unico non luogo dove provare a esserci. Oltre tale vitale e deprecabile precarietà, ci sono "loro", quegli strani esseri che hanno cominciato a decomporsi e corrompersi in anticipo sulla morte.

La lunga attesa creata non porterà a nulla, ma non potrebbe essere altrimenti. Già, perché lo spettacolo è incardinato su una denuncia che in quanto tale agisce per constatazione: non promette un'evoluzione ma mira a svelare un fenomeno. Se da un lato, dunque, Zombitudine sembrerebbe avvitarsi in un'ironia che si fa puro e amareggiato sarcasmo, dall'altro grattando via la superficie della superata retorica zombie emergono piccoli preziosi momenti di grande umanità, in cui i due assediati smettono di guardare ossessivamente l'esterno e scandagliano dentro sé stessi, per scoprire, finalmente, che "noi" e "loro" sono la stessa cosa.

Come diceva Emerson - citiamo a braccio -, le masse saranno sempre masse finché continueremo a vederle come tali: cominciamo a dare un nome a ogni singolo individuo, a considerarlo uno e uno soltanto, ad accoglierlo e a scoprirlo, e le masse scompariranno. Questa grande sensibilità "empatica" a Frosini/Timpano certo non manca, ma la trappola del dolore, dell'impotenza, della rabbia è sempre dietro l'angolo e spesso li tiene sotto scacco.

Dopotutto però, anche gli zombie, forse, presi uno a uno, non devono essere poi tanto male! - See more at: http://www.paperstreet.it/cs/leggi/5085-Zombitudine_-_FrosiniTimpano.html#sthash.JAiJR5x5.dpuf


Zombitudine
[ Ludovica Avetrani, novembre 2014, Nucleo Art-Zine ]
"Prima di entrare nella sala, lo spettatore percorre un corridoio sporcato di luce verde che ricorda l’atmosfera di un b-movie sugli zombie: ad attenderlo un sipario rossastro chiuso, una valigia e i due corpi degli attori. Il corpo di Daniele Timpano è steso sul proscenio in atteggiamento dormiente, quello di Elvira Frosini è di spalle, in tensione, la testa sbircia attraverso il telo chiuso, tanto da spingere a domandarci cosa guardi.
Non si attende molto per avere una risposta: i corpi si risvegliano dall’immobilità e il loro dialogo ci racconta di un’apocalisse imminente, di un’invasione di corpi morti che minaccia la salvaguardia di tutto ciò che ci è più caro. Il pubblico, insieme a questa coppia dai vestiti sgualciti, fa parte di quella piccola percentuale umana che potrebbe salvarsi, che ha avuto l’opportunità di rifugiarsi in una sala teatrale riqualificata a bunker. Tutto ciò che resta fuori è destinato all’estinzione, coloro che abbiamo lasciato all’esterno sono ormai perduti, corrosi dal morbo dell’ indecisione e della completa disumanità cannibale. Non resta che scegliere un modo per contrastare l’ammorbante stato d’allerta; ed è questo a cui la platea viene spesso esortata, in un continuo scambio attore/pubblico, a prendere una posizione, che sia prediligere la parte dei vivi che accettano di morire senza ritornare oppure quella dei morti che camminano, che sono la maggioranza e che divorano impestando il mondo col loro fetore.
Lo spazio del teatro si mostra come quello di un rifugio angusto, un luogo spartito con persone senza alcuna speranza, disilluse dalla realtà che circonda, un luogo dove il tempo si dilata nell’attesa della catastrofe imminente. C’è poco o niente da fare, se non lasciarsi andare a riflessioni a ruota libera, a guizzi di disperazione e rabbia, ad una spasmodica ricerca di condivisione surreale sui social network dell’estenuante condizione di attesa.
Ma cosa dà la certezza che solo fuori si sia persa l’umanità? E se ciò che rappresenta il sipario chiuso, ovvero una linea di demarcazione fra quello che è dentro e fuori, fra ciò che è morto e che è vivo, si fosse da tempo sfaldato e dissolto, rendendo interscambiabili i ruoli di sopravvissuti e famelici mangia-cervelli?
Se il morbo della zombitudine fosse in potenza in ciascuno di noi, potrebbe essere una presa di posizione anche quella di accettare la propria condizione di zombi?
Il punto è che nessuno può dissociarsene, questo sembrano dire Elvira Frosini e Daniele Timpano con l’espressione “gli zombi siamo noi”. Il declino c’è perché noi non siamo in grado di contrastarlo.
Non ci resta allora che far aprire il sipario ed accettare la trasformazione, in un’atmosfera di fumi verdastri che in un dolceamaro contrasto ci riportano alla mente una romantica malinconia, fatta di piccoli gesti, di parole sussurrate che ci rendono umanamente vuoti."



Zombitudine
[ Renata Savo, novembre 2014, Scene Contemporanee ]  
"Daniele Timpano ed Elvira Frosini elevano la metafora dello zombi a paradigma compositivo e concettuale di uno spettacolo in cui mescolano finzione e realtà per rappresentare i cliché di un teatrino ammuffito e di un'Italia cadaverica. Sono arrivati. Al Teatro dell’Orologio. Daniele Timpano, Elvira Frosini, e gli zombi. Anzi, loro, gli zombi, già c’erano prima di tutti. Prima di Elvira e Daniele, prima degli spettatori, prima che attraverso Romero arrivassero sul grande schermo. Ma chi sono gli zombi? Che vogliono “questi” da noi? 

Una grande ambiguità, paradigma compositivo e concettuale che permea lo spettacolo Zombitudine, come una matassa informe, un grande involucro, contiene, contiene fino a esplodere sulla scena, nei meandri oscuri di un teatrino ammuffito. Un luogo, un cadavere. Una vittima, come lo zombi, di un immaginario comune: tutti sanno cos’è, com’è fatto, quali sono le sue convenzioni, ma in pochi riescono ancora a onorarne la memoria, sempre meno lo frequentano. E non è affatto un caso che le prime idee sullo spettacolo siano nate proprio da un progetto condiviso con altri teatranti: Perdutamente. La residenza invernale nel 2012 di diciotto compagnie romane al Teatro India di Roma, per qualche tempo il rifugio di una comunità di individui, ha rappresentato la prima vera, reale fonte d’ispirazione per la coppia di artisti e di altri come loro che hanno eletto lo spazio scenico a piccolo baluardo della propria esistenza. Si inizia a fare teatro per scampare al reale, scegliendo una vita sacrificata, ma che permette di dare forma alla propria visione del mondo in un atto di condivisione con altri. Là si vorrebbe restare, se non fosse che all’esterno, fuori da quel mondo, non esiste alcuna certezza né per l’artista né per chiunque altro. Muoiono tutti, come nel peggiore film dell’orrore. Non si sceglie più, quindi. Si è costretti. La realtà è che perdutamente chiusi in questo “monduccio” rassicurante e inquietante al tempo stesso, “vuoto” e frequentato solo da “morti”, Daniele Timpano ed Elvira Frosini si domandano tra le righe se non fosse stato meno peggio barattare la non-vita con la morte. Come per il teatro, lo stesso discorso vale anche per gli zombi: tutti sanno cosa sono, ma quasi nessuno conosce la loro provenienza (vedi http://it.wikipedia.org/wiki/Zombie). 


Si lavora, allora, proprio sullo scarto esistente tra quello che si sa e quello che significa per se stessi. Si può dire che il fulcro centrale della loro poetica da sempre sia afferrare gli immaginari comuni, i cliché, per ripresentarli in una forma che non si conosce, dando modo di scoprire cose nuove, di far entrare lo spettatore dentro l’oggetto d’indagine attraverso dei varchi inaspettati. Che si parli di storia, di rapporto con il cibo o della morte, poco importa. Ciascun oggetto rappresenta ugualmente una melassa di informazioni che si scioglie seguendo logiche personali – spesso autobiografiche. In Zombitudine lo spettatore realmente non sa cosa deve aspettarsi: se alla fine questi zombi arriveranno oppure no, se ad averla vinta, nell’economia dello spettacolo, sarà Aspettando Godot o il plot da film dell’orrore. 

Gli spettacoli di Daniele Timpano ed Elvira Frosini da questo punto di vista sono un invito ad allargare lo sguardo. Perché se restiamo immobili, come lo spettatore seduto in poltrona, che “c’è” ma è come se non ci fosse, siamo perduti. Siamo morti. Perché proprio i cliché, le convenzioni, su cui il più delle volte basiamo la nostra conoscenza del mondo, sono cadaveri che ci trascinano verso il passato impedendoci di guardare avanti, al diverso-da-come-appare; e la superficialità con cui i media li alimentano è tale da indurre gli individui ad assimilare quella stessa “zombitudine” nelle loro vite. Lo zombi, né vita né morte, cammina, sì, ma a vuoto, per inerzia. Per questo nello spettacolo si viene a creare una strana sovrapposizione di ruoli, in scena come nella vita reale: tra chi riesce a imporre la sua visione delle cose dettando le regole (l’attore), e chi le subisce (lo spettatore). Così, quando finalmente arrivano, ci chiediamo se siano più “zombi” i performer che invadono la platea, innocui come sono, armati di sole parole appese a un cartello, o noi spettatori seduti in poltrona, impossibilitati realmente ad agire perché in trappola come loro; noi, che abbiamo appena assistito a uno sterminio, e restiamo comunque incapaci di prendere una posizione. L’immagine dello zombi, quindi, condensa, ricalca questa impossibilità di agire dentro il mondo reale, in questa Italia dove dalla parte del potere ci sono tutti contro tutti (e pronti a tutto); dicono tutto e il contrario di tutto con una faciloneria che non è estranea, volutamente, allo stesso spettacolo. Ma il vero dramma, forse, non è quello che stiamo vivendo oggi. Il vero dramma è che da tutto questo, noi, non risorgeremo. Ce ne distaccheremo. Come il vivo fa con il morto. 

Zombitudine
Dolores Pesce, 08 dicembre 2013, Dramma.it

"In un teatro qualsiasi due attori ed il pubblico presente sono barricati perché, in una catastrofe universale, gli zombi stanno prendendo possesso dell'intero globo [...] A partire da un condizione divenuta metafora integrale di una società che ha perduto riferimenti forti, quella della non-morte che è inevitabilmente specchio della non-vita che pare affliggerci e quasi domina le generazioni più giovani, i giovani drammaturghi però, utilizzando schemi ormai consueti in un fraseggio tra il cinematografico ed il fumettistico, con sapienza introducono quasi impercettibilmente intoppi di consapevolezza al meccanismo simbolico. Giocano in fondo, sia nella drammaturgia che nella traslazione scenica, sulla sovrapposizione di identità e di identificazione [...] Gli zombi sono dunque fuori e ci accerchiano ovvero sono dentro di noi, siamo noi stessi che lottiamo per sopravvivere? [...] Sentimenti claustrofobici si alternano a tentazioni di fuga sempre abortite e la mancanza di speranza si sovrappone, man mano coincidendo, ad una egolatria debordante. Ma al confine di un mondo ormai quasi privo di luce, in quel teatro dato ormai da secoli come morto e che non muore mai, forse la consapevolezza di sé è ancora un medicamento efficace che trasforma riti e ritualità in forgiatori di conoscenza e dunque di salvezza. [...] I drammaturghi attori sanno usare con ironia il linguaggio del cabaret, talora fino a suscitare la risata piena, per rivisitare miti e riti di una rivoluzione perduta (forse) che rileggono in una neo-lingua costruita sulla grammatica zombi.
Il pubblico ne è colpito e intravede un varco nella cupa omologazione della contemporaneità, un varco ed una speranza di cui ancora una volta il teatro sembra potersi far carico, e alla fine applaude ritrovando convinzione. 



Zombitudine: bisogna essere morti per comunicare
[ Mario Di Calo, novembre 2014, Malacopia

Bisogna essere morti per poter comunicare fra noi, la morte è una cosa meravigliosa. Solo quando abbiamo raggiunto questa condizione ideale potremo finalmente comunicare liberamente fra noi: zombi in un mondo di morti. Questo è l’assunto principale dello spettacolo di e con Daniele Timpano e Elvira Frosini che ha debuato per la ventinovesima edizione di Roma Europa Festival 2014 al teatro dell’Orologio. All’ingresso viene consegnato un vademecum in tredici punti di sopravvivenza alla Zombitudine, nel quale salta all’occhio la tredicesima regola che riportiamo pari pari ‘Cimiteri e teatri sono i luoghi migliori per nascondersi, essendo vuoti e pieni di morti (morti – morti e morti-veri). Anche i tetti sono abbastanza sicuri ma ormai siete a teatro‘.
Non c’è via di scampo per noi, quella che può rappresentare la nostra salvezza sarà la nostra fine. Un controsenso intrinseco che la dice lunga sulla platea numerosa che affollava la sala Orfeo dell’Orologio. In realtà, più che in un teatro sembrava di trovarsi in una casa degli spettri di un qualsiasi luna park di provincia, voci registrate inquietanti che provengono da dietro un sipario rosso liso e sitnto, i due protagonisti come manichini impagliati che attendono immobili prima di rianimarsi per lo spettacolo. Ci inondano di interminabili e gustosi tormentoni di calembour in uno sportivo e galante gioco fra marito e moglie, fra uomo e donna, palleggiandosi il primeggiare sulla scena. Si svolge quasi tutta in proscenio la serata, che risulta essere caustica e amara, purtroppo, a causa dell’epoca semitragica in cui viviamo. Una analisi al vetriolo di una società in decomposizione; seppur ci si volesse incazzare, la rabbia non può che essere repressa e depressa, in fondo siam tutti a-spettatori ed a-spettatrici in decomposizione, che non presentano nessuna forma di ribellione non hanno nessuna via di scampo. Uno spettacolo di tre D: derelitti, depressi e disperati. Daniele e Elvira anche loro sono nella nostra stessa condizione e alla ricerca di un motivo, di un titolo per definire il nostro incontro. Solo dopo una lunga e divertente litania riescono finalmente a dare un nome al loro desiderio e volontà di salvarsi e di salvarci: Zombitudine. Ma di una cosa siamo sicuri: siamo in un teatro, luogo frequentato ed agitato solo da morti e il finale semitragico lascia ben poco sperare. Che fossimo già morti in cammino verso il nulla lo sapevamo fin dall’inizio ma scoprire di essere degli zombi in continua ricerca di cannibalizzare i propri simili è una scoperta agghiacciante e disarmante.
Zombitudine, in realtà, sembra discendere direttamente da una costola del beckettiano "Finale di partita" con quell’attesa di un qualcosa che non avviene mai, in un reiterato riprendere da capo un loop di argomentazioni. Il tono tragico è stemperato dal divertissement, i due interpreti semiseri sono sempre al limite fra comicità e speranza, il tormentone del caffè ce li rende teneri, come sorpresi in uno spaccato familiare. Viene quasi voglia di uscire fuori da quella dimensione spettrale e andare al bar per fargli prendere un attimo di fiato.
 

Un bastimento carico di Zombi
 [ Marialaura Di Lucia, 4 febbraio 2015, Oltrecultura ]
 
"E se fossero gli ultimi due sopravvissuti all'invasione degli zombies, come Fran e Peter ne L'alba dei morti viventi? A dire il vero, nella loro prospettiva non sono solo loro gli unici scampati all'apocalisse, ma anche noi, gli (a)spettatori [...]
I riferimenti all'epica pellicola di George A. Romero [...] non mancano e in alcuni casi sono espliciti. Quando, ad esempio, devono scegliere un titolo per il film che hanno in mente di realizzare, il primo a cui pensano è proprio "Zombi" [...] Continuando la carrellata ("Se questo è un morto", "Mettete gli zombi nei vostri cannoni" e "Gli zombi sognano pecore zombi"?) - sbuca anche un Romero 26-12. Fino a un più secco "Sparateci alla testa!" seguito dal commento “come a Carlo Giuliani”. Non a caso, perché nel remake di Zack Snyder del 2004, quando i protagonisti arrivano nel centro commerciale e apprendono dagli schermi televisivi le notizie del mondo esterno dopo l'epidemia, vengono fatte scorrere alcune immagini degli scontri del G8 di Genova. [...] Quando esce nel 1978, il film viene letto come un'aperta critica al consumismo sfrenato del mondo occidentale. I magazzini sono ormai i luoghi culto per eccellenza del sistema capitalistico. Non le case, non le chiese rappresentano l'universo sacro dei vivi, ma i centri commerciali. E lo saranno anche quando da morti ritornano. Lo capisce bene Peter quando, osservando la loro avanzata dall'alto di una balconata dei magazzini, dice agli amici che gli zombi non vogliono loro, ma quel posto: “Non sanno perché ma se lo ricordano, si ricordano che vogliono venire qui”.
Mirabilmente profetico se si pensa che la globalizzazione era ancora di là da venire.
Qui invece siamo a teatro e questa è non solo una critica alla società dei consumi o una denuncia dell'appiattimento intellettuale dovuto all'uso incontrollato degli (a)social network (fino all'ultimo i due sono presi dalla foga di postare foto e video su Facebook perché “il mondo deve sapere”, “qui c'è la verità, è tutto vero”). Questa è una critica al teatro stesso, fatto di morti, come i cimiteri. La Regola minima di sopravvivenza nr. 13 recita: “Cimiteri e teatri sono i luoghi migliori per nascondersi, essendo vuoti e pieni di morti”. Eppure per chi è riuscito - “forse” - a scampare all'apocalisse, il teatro è a conti fatti l'ultima spiaggia, l'unica ancora di redenzione: “È la fine, tranquilli! Voi non lo sapete ma acquistando il biglietto questa sera avete acquistato l'unica speranza di salvezza. Siamo l'ultima scialuppa, l'arca di Noè. Venendo a teatro questa sera, anche se non lo sapevate, siete diventati dei rifugiati, siete entrati nel novero di quelli che - forse - ce la faranno. [...] Noi qui stiamo bene, qui siamo al sicuro, qui siamo al teatro”.
Benissimo! Ma considerando che - come da premessa - si può cominciare solo se siamo tutti morti, a chi è rivolto l'invito a salvarsi? A dei morti? E salvarsi da chi o da cosa? Da zombi, ovvero da altri morti? E poi come ci salverebbe il teatro? E a quale scopo?
La “zombitudine” pare essere una condizione non solo condivisa da tutti, ma necessaria. Massifica, omologa, lobotomizza tutti indistintamente, inesorabilmente, non si sfugge [...] Ogni tentativo di rivolta è inutile, si risolve in un buco nell'acqua. Il grido “Sterminio! Steminio!” si spegne in una rassegnata invocazione al Padre nostro di “donarci il nostro odio quotidiano”. Nessuno dei pochi sopravvissuti ha la forza di ribellarsi, così lo zombi non è diverso in nulla da chi crede di non esserlo. Il mondo è retto dalla logica del “dimmi che mutande hai e ti dirò chi sei”, la biancheria firmata è una tana calda e sicura, irrinunciabile, da difendere con i denti: “Lo difendiamo pure il nostro monduccio? Ma perché? Perché? Perché poi che si fa? Dove si va? Ti manca la terra sotto ai piedi”. 
A costo di rischiare di essere quasi voce isolata dal coro, riferiamo la nostra impressione di trovarci davanti ad un testo di buon livello, di sicuro al di sopra della media cui siamo abituati, animato da un'interpretazione, anzi due interpretazioni perfettamente sintoniche.
Peccato che quello che poteva essere uno spettacolo in sé perfetto, venga trascinato eccessivamente nel finale, quando suonano le sirene, il sipario si apre e il cerchio si chiude. [...] Aprendo finalmente le cortine rosse del sipario - le cortine di separazione tra il mondo dei vivi e quello dei morti (abbiamo ancora bisogno di distinguere?) - li vediamo a trasformazione zombi compiuta. Sono due manichini, due teste impagliate come quelle degli “uomini vuoti” di Eliot [...] Manichini come quelli che nella pellicola di Romero vengono trascinati per il centro commerciale dagli zombi, manichini essi stessi. [...]“Questo è il mondo che c'avevano promesso da bambini?”: eco eliotiana da "Gli uomini vuoti", “È questo il modo in cui finisce il mondo?”, ultimi versi."
Zombitudine
[ Enrico Vulpiani, novembre 2014, Saltinaria ]

[...] "In Zombitudine si sottolinea la regressione dell’umanità negli uomini, anime cristallizzate: non antiche, perché prive della saggezza frutto dell’esperienza degli avi, non moderne, perché fan fatica ad individuare una direzione chiara dove volgersi al futuro. [...] Due aspiranti sopravviventi trovano rifugio al confine del palco, sul bordo, oltre il sipario, dentro il mondo marcio, fuori il nulla. Un piccolo bagaglio, di sussistenza, di sconcerto e di speranza.
Arrivano! Tenuti sotto una minaccia costante, grimaldello per scardinare le menti ed imprigionare le anime. Le persone atterrite non potranno mai essere libere ed è facile gestire il monopolio delle chiavi delle celle. “Se non fai il bravo arriva l’uomo nero”, ci dicevano le mamme più semplicistiche, “se non consumi, la crisi non passa”, “se non ti omologhi, non passi alla cassa”. “Rinunci all’anima?” “Come?” “Ehm… volevamo dire… a Satana”. Daniele ed Elvira vivono quel limbo, vedono gli esattori della loro libertà venirgli incontro, vivendo la solitudine del coraggio. 

Chi si è già arreso bussa alla porta, ci vuole come lui affinchè non si senta in colpa, finchè ci sarà qualcuno che non si sarà arreso si vergognerà di specchiarsi in lui. Arrivano! Ma da dove? Quando? Sarà veramente peggio o sarà finalmente una liberazione essere “assunti” fra i cattivi, prigionieri secondo antica memoria? Arrivano! Un mantra che, dal terrore iniziale, poi anestetizza e infine rassicura, scendono finalmente in platea, si trascinano, ci guardano, chiedono rifugio, liberazione, chiedono umanità. Prima di affrettarvi a salire sul carro del mietitore… prima di rassegnarci a doverci mangiare a vicenda, guardiamoci negli occhi, un'ultima volta.
 

Zombitudine cela una complessità ed una densità morale più ampia dell’atmosfera tragicomica volutamente creata, rivela il coscenzioso tormento degli autori, mette in scena i propri dilemmi, che più che ad Amleto, rifanno l’eterno verso ad Erich Fromm: “Essere o (pensare di) avere”. L’approccio è onirico, sfumato, non detto, evita il didascalico e mantiene la platea in attesa, forse, solidale, tenendo vivo il monito dell’immortale “divide et impera”. Uno spettacolo che, evitando di chiudersi in confini precisi lascia la possibilità di farlo proprio, ognuno di fronte alla responsabilità di riconoscere a che punto si trova."


Zombitudine: Daniele Timpano e Elvira Frosini raccontano il mondo di oggi alla Tosse
Francesca Baroncelli, 29 novembre 2013, Mentelocale
Zombitudine foto di Gianluca Zonza
"Siamo un gruppo di persone chiuse a chiave in un teatro. Non si può più uscire, le porte sono sbarrate. E il bello è che non sapevamo che ci saremmo trovati tutti lì, ad aspettare. Aspettare chi? Aspettare cosa? Che tutto finisca. O forse che tutto abbia inizio. Una vita nuova o la fine di tutto? Noi, spettatori trasformati in aspettatori - coloro che aspettano e non sanno il perché - restiamo seduti seguendo le istruzioni di due attori che, dal palco [...] ci spiegano cosa sta accadendo. Lei e lui sono soli sul proscenio. [...] Dietro di loro solo il sipario rosso, chiuso. Si agitano mentre aspettano l'arrivo di chi cambierà tutto. [...] Sono gli zombie quelli che stanno per arrivare? Non si sa, non si capisce. L'importante, comunque, è riprenderli con il telefonino, e possibilmente fargli anche un video per poi pubblicare tutto su Facebook, perché «il mondo deve sapere». Come se riportare tutto sul social network fosse più importante che sopravvivere, come se Facebook fosse sinonimo di vita.
Quando poi loro, gli zombie, arrivano davvero, camminano tra di noi, il pubblico. E hanno qualcosa da dire [...] Camminano lenti (conosciamo tutti l'andatura degli zombie), come in corteo. Ma chi sono i non-morti, loro o noi? [...] Questo spettacolo scritto, diretto e interpretato da Frosini e Timpano, ti fa venire voglia di pensare, di ridere - molto - e di scoprire un teatro vivo e vegeto (altro che zombie) [...] La locandina di Zombitudine, bellissima con i suoi disegni fumettosi e i colori accesi, ci fa pensare al classico horror splatter. Ma non è questo che dovete aspettarvi entrando in sala. Non aspettatevi proprio niente: godetevi questo spettacolo."

La sostenibile leggerezza dell'Horror quotidiano
[ Guido Valdini, 18 aprile 2015, La Repubblica Palermo ]
 
Al botteghino del teatro gli spettatori sono forniti di un foglietto contenente alcune “regole minime di sopravvivenza”, la cui tredicesima suona così: «Cimiteri e teatri sono i luoghi migliori per nascondersi, essendo vuoti e pieni di morti (morti-morti, i morti veri)». Questa avvertenza ci trasporta subito nell’atmosfera irridente di Zombitudine, lo spettacolo di e con Elvira Frosini e Daniele Timpano. Certo, i teatri oggi non sono affatto vuoti (per fortuna), anche se spesso vi si respira davvero aria di morte (della fantasia, dell’intelligenza). Ma l’intento di questo curioso spettacolo è più ampio ed estremo: ricordarci che l’horror cui allude il titolo impregna le nostre vite, la nostra società, il nostro tempo, e che la “zombitudine” è la nostra condizione abituale, anche se non ce ne accorgiamo, anche se pensiamo che i mostri sono quelli della porta accanto. Di più, i mostri siano “anche” noi. E se fuggire dai mostri tra noi è complicato, ma possibile, come ci salveremo da noi stessi, se non cannibalizzandoci? Tutto questo pessimismo (realismo?) noir, lo spettacolo ce lo proclama in maniera divertita e leggera, magari un po’ bislacca e spesso stucchevole, entrando e uscendo dalle convenzioni della finzione: i due bravi e disinvolti protagonisti si rifugiano in teatro come luogo d’illusoria sicurezza, pronti a resistere appena gli zombi li scopriranno. Nell’attesa, tra un falso allarme e l’altro, si lasciano andare ad una serie di gag e di ovvietà sul tema e sullo sciocchezzaio quotidiano, fra l’ingenuo e il surreale, a tratti memori, alla lontana, dei vagabondi beckettiani alle prese col nulla. Lo stupore arriva quando si accorgeranno che gli zombi sono simili a loro, magari anche eleganti e fascinosi, ma dall’inconfondibile tanfo di morte. E l’apparizione, tra nebbia e vapori, dei veri zombi (sempre loro), nel finale, restituisce il retrogusto amaro di una condizione tragico-grottesca senza apparente salvezza
.

Zombitudine
[ Valeria Brucoli, 20 novembre 2014, Shake movies ]

"L’apocalisse zombi è scoppiata. Gli zombi sono ovunque, hanno invaso le strade, le metro e i palazzi del governo, sono i nostri vicini di casa, i nostri colleghi e i passanti che ci sfiorano con gli occhi incollati ai loro cellulari di ultima generazione. L’epidemia è scoppiata da tempo e senza che ce ne accorgessimo si è insinuata silenziosamente nei nostri cervelli intaccando ogni cellula del nostro corpo, per sempre. L’economia ha sferrato il suo colpo letale all’umanità e l’ha ridotta ad un branco di creature non pensanti, di zombi che seguono capricciosamente le tendenze del mercato per sentirsi ancora vivi. Manca la forza di mostrare la propria personalità per distinguersi dall’orda e per ribellarsi ad una morte cerebrale da cui non è possibile svegliarsi. La Zombitudine è la malattia di questo secolo. Non c’è cura e non c’è ritorno, l’unica possibilità di sopravvivere è nascondersi bene dagli altri zombi, scegliendo posti sicuri come i cimiteri, dove ci sono i morti veri, i tetti o i teatri da cui gli zombi si tengono a debita distanza, e attendere che qualcosa cambi o che gli zombi sfondino le porte per mangiarci il cervello [...] ed ora siamo qui, in un teatro soffocato da un fumo opalescente e da una musica assordante. Un uomo e una donna sono sul palcoscenico, soli con una valigia demodè tra le mani. Non si sa se sono vivi o morti, se la zombitudine li ha già contagiati o se sono gli ultimi superstiti. Sembrano venire da un’altra epoca, ma ad uno sguardo più attento si comportano proprio come noi, e in men che non si dica tirano fuori dalla tasca un telefonino per scattarsi un selfie commemorativo di un momento storico: l’invasione zombi dell’intero pianeta.
Elvira Frosini e Daniele Timpano sono il risultato della società che noi stessi abbiamo creato, e che ci ha risucchiato il cervello in un vuoto cosmico fatto di omologazione e impotenza. Loro sono come noi, incapaci di prendere una posizione, di scegliere un leader e incatenati nell’attesa di un cambiamento che non avverrà mai. Con l’umorismo nero che li contraddistingue criticano duramente la società di zombi in cui ci troviamo, ma ammettono candidamente di farne parte e di essersi arresi a una fine inevitabile. I dialoghi brillanti intessuti tra citazioni colte e atmosfere cinematografiche orrorifiche tengono in vita chiunque si sia rifugiato nel teatro per tutto il tempo della rappresentazione, e alternando la luce della speranza all’oscurità della rassegnazione, Elvira Frosini e Daniele Timpano non perdono mai di vista la possibilità di salvarsi dagli zombi, di risollevarsi dalla massificazione e di ricominciare a vivere partendo proprio dal teatro, un luogo pulsante di nuova linfa vitale e ancora inattaccato dalla zombitudine collettiva. Gli zombi sono alle porte, spingono dall’esterno per entrare, non rimane molto tempo, ma forse possiamo ancora salvarci."


Zombitudine, lo smarrimento di una società in cui non si salva nemmeno chi si rifugia a teatro

[ Daniele Ferro, novembre 2014, L'Araldo dello Spettacolo ]

Zombitudine - foto di Franco Rabino
"Frosini e Timpano, con la mimica degli sguardi persi nell’incomprensibile attualità, raffiche di parole incrociate e domande poste al pubblico, disegnano tra nuvole d’ironia che generano risate e amarezza la propria visione della società italiana, e forse di tutta la cultura occidentale contemporanea: una società decadente in cui tutti, approfittatori, perbenisti e oppositori del consumismo, sembrano non avere più una base di valori per tracciare di senso le proprie vite. 

[...] Le “Regole Zombi” che vengono consegnate prima dell’ingresso in sala forniscono una possibile chiave di lettura di uno spettacolo che fa emergere i contrasti dell’epoca contemporanea, come il precariato che da condizione economica è diventata esistenziale (“Non fare programmi a lungo termine, mai oltre la giornata. È fortemente consigliato mantenersi su un orizzonte di tre quattro ore al massimo”), l’individualismo (“Non pensare mai agli altri. Pensa solo a salvare te stesso”), l’autoritarismo della maggioranza (“Diffida dei dissidenti del gruppo: se nel tuo gruppo c’è qualcuno che contesta le scelte del Leader conviene eliminarlo subito. In questo Stato, la democrazia non esiste”), lo svilimento dell’arte teatrale (“Cimiteri e teatri sono i luoghi migliori per nascondersi, essendo vuoti e pieni di morti”).  In un’epoca di zombi, tuttavia, le chiavi interpretative funzionano poco. [...] Tutto appare in decadenza: il nuovo che si presenta come tale è in realtà già putrido e gioca con il vecchio che resiste per inerzia, sembra dire una veloce “Bella ciao” che gli attori intonano sulle note del sarcasmo. 

Ma se la coppia apre lo spettacolo dicendo che “la vita è una cosa meravigliosa che con i denti morde”, possiamo davvero credere che sia tutto ormai in via di decomposizione, oppure Frosini e Timpano vogliono in fondo invitarci a costruire insieme una vera innovazione della società?"  [...]

"Educatamente incazzati"
[ Miriam Longhi, luglio 2014, L'invasione ]

"Zombitudine [...] usa ironia e umorismo per parlare della nostra terrificante situazione. Proviamo paure di cui non possiamo fare a meno, a metà tra vivere da morti e morire da vivi. È uno spettacolo sull'orrore del nostro tempo, della condizione di semivita che ci portiamo addosso. Un uomo e una donna si rifugiano in un teatro, spazio di illusoria resistenza incorniciato dal rosso scolorito di un sipario, abitano il palco vestendo abiti anni Cinquanta e
maneggiando una valigia che contiene i viveri sufficienti a sopravvivere. Insieme al pubblico attendono l'arrivo di misteriosi zombie, interrogandosi e interrogandoci sul loro aspetto e le loro intenzioni. Gli zombie siamo noi e rappresentiamo quello che rischia di succedere. La “zombitudine” identifica la quotidianità claustrofobica, i due – stretti dall'urgenza di un evento
imminente e devastante – restano intrappolati in un assedio ormai divenuto normalità [...] La fine sembra essere già qui [...] La difesa della società è una luce ormai spenta." 


Prendete posizione perché questa è la situazione!
[ Flaminia Chizzola, 18 novembre 2014, CU.SP.I.D.E. Magazine]

Zombitudine - foto di Piero Tauro
 "crisi, disoccupazione, depressione, destra, sinistra, centro, centro per l’impiego, centro commerciale, centro di prima accoglienza, accoglienza per i poveri, per i rifugiati, per i perseguitati, per gli uomini di buona volontà, di buona educazione, di buona famiglia, famiglie miste, famiglie allargate, famiglie monoreddito, reddito procapite, d’impresa, di cittadinanza, cittadinanza attiva, diritto di cittadinanza, diritto di manifestare, di scioperare, di scendere in piazza, di scendere al bar, a bersi un caffè, un caffè macchiato, corretto, un caffè al vetro, alla macchinetta, alla macchina del fango, alla macchina dello Stato, degli aiuti di Stato, dei segreti di Stato, dello Stato canaglia, della trattativa Stato-mafia, di Cosa nostra, degli affari nostri, del Padre nostro, del nostro interesse, contro il nostro interesse, a interessi zero, a costo zero, zero impegni, zero responsabilità, zero controindicazioni, contravvenzioni, controlli, contropartite, contro i privilegi, contro i primi della classe, contro tutto e tutti perché tutto può succedere, tutto è possibile, tutto è già finito, fine primo tempo, fine della serie, finale di stagione, gran finale, titoli di coda, titoli di Stato, stato dell’arte, stato sociale, stato civile, celibe, nubile, coniugato, data di nascita, di scadenza, tempo scaduto, tempo scadente, tempo pieno, indeterminato, part time, lavoro precario, lavoro poco, non lavoro, non studio, non faccio niente, non ho prospettive, programmi futuri, progetti di vita, non vivo, non vivo più da tempo, sono un morto che cammina, che parla, che respira, nella pace dei sensi, senza sensi di colpa, colpevole a prescindere, condannato alla morte civile, mi arrendo alla morte apparente, morirete tutti se non siete già morti, se non siete già zombie."


Per teatri e camposanti
[Anita Motta, 18 aprile 2015, Scénario ]

"Il quotidiano insopportabile, intriso di fobie, esibizionismo, centri commerciali, facebook, selfie, video da postare, fashion, scelte politiche effettuate con il naso turato, sorveglianza occulta, narcisismo elevato ad idolatria, irrompe sulla scena [...] In questa nostra Italia che tenta ancora di sorridere con sano istinto di sopravvivenza la morte serpeggia, si insinua nei vivi, ammorba di puzzo, terrorizza con le sue inquietanti visioni di decomposizione, si ripropone attraverso la condizione di zombitudine, quella vissuta dai tanti (tutti?) che non si accorgono di essere finiti da un pezzo, di essere stati eternamente morti.
L’Occidente è tramontato, le ideologie sono naufragate, ma non sono state sostituite da altro pensiero forte, il relativismo culturale assolve tutti, nessuno sa più prendere posizione. Collocarsi a destra o a sinistra è irrilevante. Con un flusso torrenziale di parole, talvolta taglienti come lame altre semanticamente svuotate, gli eccellenti interpreti sostengono l’intelligente e corrosivo testo creando una regia fantasma – affetta da zombitudine anche quella – davanti ad un sipario rosso chiuso fino all’epilogo - che nulla aggiunge però al già detto – in cui la trasformazione paventata/desiderata è avvenuta. Dove rifugiarsi dall’assalto dei nuovi colonizzatori, dei mostri orribili o bellissimi a seconda del punto di osservazione?
Teatri e cimiteri sono i luoghi più sicuri perché vuoti e pieni di morti, ma fuori dal teatro non c’è nessuna salvezza, tenerezza e sarcasmo si fondono in chi del teatro ha fatto la propria ragione di vita o forse di morte. Isolati, disadattati, oscillanti tra noia e dolore alla maniera di Schopenhauer o tendenti alla felicità, e quindi frustrati per via dell’assenza del sommo bene cercato, alla maniera di Leopardi, gli uomini oggi sono tutti uguali, omologati, globalizzati, centrifugati e il continuo ricorso all’uso in coppia dei pronomi noi/voi (attori/pubblico) rafforza un’identificazione che annulla il valore della diversità. Inneggiare allo sterminio di massa (con precisi riferimenti ai totalitarismi del secolo breve) proporre palingenetiche apocatarsi, cioè spurghi liberatori di rinnovamento, odiare il nostro piccolo mondicino sono gli eccessi di una rabbia addomesticata che continuerà a roderci
E’ forse superfluo il tentativo di scuotere e coinvolgere il pubblico fisicamente e verbalmente, gli “aspettatori” (termine doppiamente arguto per l’uso dell’alfa privativo e del significato propriamente suo) non hanno più bisogno di espedienti triti: o continuano ad aspettare - Beckett insegna – o continuano a morire.

_______  
 

WALKING ZOMBI / progetto collaterale

[ ciclo di avvistamenti e apparizioni Zombi negli spazi urbani ]

Coordinamento del progetto "Walking Zombi" 
Francesca Caso (Genova), Fuori Luogo (La Spezia), 
Angela D'Alessandro, Andrea Martorano, Alessio Pala, Eleonora Paris, Alessio Rizzitiello, Arianna Saturni, Laura Toro (Roma)

  _______  

 
WALKING ZOMBI / le foto di scena


WALKING ZOMBI @Roma - dicembre 2012


foto di Ilaria Scarpa
foto di Ilaria Scarpa
foto di Ilaria Scarpa

foto di Ilaria Scarpa

foto di Ilaria Scarpa
foto di Ilaria Scarpa

foto di Ilaria Scarpa

foto di Ilaria Scarpa

foto di Ilaria Scarpa

foto di Ilaria Scarpa

foto di Ilaria Scarpa

foto di Ilaria Scarpa
foto di Ilaria Scarpa
foto di Ilaria Scarpa
foto di Ilaria Scarpa



































































































WALKING ZOMBI @ROMA - 2 novembre 2013
Festival "Interiora"

foto di Emiliano Martina




































WALKING ZOMBI @LASPEZIA / nov-dic 2013

 

foto di Alessandra Muschella

foto di Elvira Frosini
Foto di Elvira Frosini





















































































WALKING ZOMBI @GENOVA / nov-dic 2013





































WALKING ZOMBI @Milano - marzo 2014

foto di Elisa Campoverde
foto di Elisa Campoverde
foto di Elisa Campoverde


















































WALKING ZOMBI @ASTI - luglio 2014

foto di Daniele Timpano





























WALKING ZOMBI @RIETI - luglio 2014



















WALKING ZOMBI @BASSANO - agosto 2014


Walking Zombi - foto di Luciano Pontarollo























































WALKING ZOMBI @ROMA - ottobre 2015
 Zombi a Montecitorio - foto di Laura Toro
















Walking Zombi Roma - foto di Igiaba Scego



Nessun commento:

Posta un commento