“In
principio erano Aldo
Morto e Digerseltz.
E
fu sera e fu mattina. E Zombitudine
fu. Primo giorno.”
[Genesi
– 1,5]
Zombitudine
riparte da zero, tenta di immergersi nel vuoto definitivo, di
costruire qualcosa di vivo a partire dalla tabula rasa del nostro
presente. È lo stesso vuoto toccato e aperto come un'insondabile
voragine da Digerseltz,
spettacolo
di e con Elvira Frosini del 2012,
in cui si fanno i conti con l'horror vacui dell'esistenza e di un
presente cannibalico e si tocca l'insicurezza e la paura di un mondo,
il nostro, che avverte lo sfaldamento del benessere e l'oscuro timore
di essere definitivamente cannibalizzati, inghiottiti dai nostri
stessi mostri: “Ecco,
gli spazi vuoti. Quelli non ci devono essere, io ho paura degli spazi
vuoti. Perché poi, nel vuoto, che succede. Nel vuoto. Può succedere
di tutto, eh sì, come nello stomaco vuoto. Non ti puoi fidare di uno
che ha lo stomaco vuoto. Non si sa mai che potrebbe fare. Perché.
Be', perché ha uno spazio vuoto. Da riempire. Chi ha spazi vuoti non
è affidabile, è pericoloso”.
Con
Aldo morto, spettacolo
di e con Daniele Timpano del 2012 su Aldo Moro, Lotta armata e anni
'70, si
toccava invece una storia recente, ancora attaccata alla pelle di noi
tutti, si toccava l'inarrestabile declino del nostro paese, si faceva
piazza pulita delle retoriche melmose delle quali ci siamo nutriti e
nelle quali siamo sprofondati negli ultimi trent'anni. Si tentavano i
conti con quell'ultimo guizzo di vitalità che ha attraversato la
nostra vita civile e politica, e con la sua tragedia definitiva,
finita nel vuoto e nell'inerzia. Il finale di Aldo
morto apriva il vuoto,
l'impotenza di fronte a questo presente soffocante: “Io
lo sento. Sento
che oggi, in questo stato, in cui siamo, è impossibile l'azione; no,
non è un fatto morale, è proprio impossibile qualunque reazione
alla “Reazione”.
In
Zombitudine
Elvira Frosini e Daniele Timpano ripartono – insieme - da questo
vuoto, da questa rabbiosa disperazione, da questo presente, da questa
impotente inerzia mortale in cui siamo sepolti.
Se
Aldo morto
era un'esplosione che faceva piazza pulita e apriva la voragine del
nostro vuoto, e se Digerseltz
apriva la voragine della nostra bocca e del nostro rapporto violento,
prepotente e compulsivo con il mondo, in un furioso e consapevole
tentativo di riempimento, Zombitudine
è questo vuoto, è l'immersione nel vuoto, è questo tentare di
ripartire da zero prendendo atto che i nostri meccanismi reattivi
sono inquinati, inceppati, e che in mano non abbiamo ancora nulla, se
non le nostre mani, se non noi stessi, se non un inutile
chiacchiericcio con cui riempire il tempo prima della fine.
Zombitudine
parte non da un fatto storico preciso, non da un cadavere eccellente
preso a simbolo di questo momento, non dal corpo morto – simbolico
- del nostro mondo divorato e divoratore, ma dai nostri cadaveri
viventi, la massa anonima dei nostri cadaveri, viventi in vita la
propria spensierata morte; Zombitudine affronta lo Zombi: questo
spettro che incarna una delle paure più grandi del nostro inconscio
collettivo: la morte in sé, come mistero ingestibile, e la nostra
morte in vita, il nostro consumare noi stessi; Zombitudine
prende in prestito dall'immaginario collettivo un mostro, lo Zombi, e
gli da un corpo, i nostri corpi, di tutti noi, cittadini della polis,
cittadini non più vivi ma nemmeno morti di uno Stato non ancora
morto ma nemmeno vivo. Se il corpo morto dello Stato è un corpo
zombi, sono zombi anche i nostri corpi.
Lo
Zombi è il subalterno per eccellenza, nasce schiavo e di colore, una
figura legata all'immaginario coloniale. Non è un caso che la parola
sia di origine africana. Originariamente Zombi nella lingua Bantu del
Kikongo indicava l’idolo, mentre nel mondo Kimbundu Zombi, nzambi,
era uno degli appellativi del Dio serpente. La parola è poi
approdata attraverso le navi negriere nelle isole di Haiti dove ha
cominciato ad indicare i non morti, i non più vivi, esseri a metà
la cui anima è sotto il dominio assoluto di uno stregone, detto
Bokor. Già nei primi film degli anni '30 lo stregone è un bianco,
che utilizza gli Zombi come servitori o come forza lavoro per le
piantagioni. La connessione tra lo zombie e la subalternità
coloniale è evidente. Dal '68, con George Romero, la figura dello
Zombi viene trasportata direttamente nel mondo occidentale: gli Zombi
siamo noi, noi cittadini occidentali, consumatori, omologati,
subalterni, sempre più privati dei diritti, morti viventi.
Questo
mostro sospeso tra vita e morte, in epoca ormai post-coloniale e
post-capitalistica, è divenuto l'immagine della nostra subalternità
globalizzata: è il nostro rimosso, la nostra morte rimossa, la
nostra acquiescenza, la nostra impotenza.
Zombitudine
è una nostalgia: nostalgia di un'epoca mai vissuta, l'aggrapparsi
alla cornice rassicurante di un vintage, di un retrò, di un mondo
che non torna più e che ci ha prodotti, quello dei nostri padri,
quello degli intellettuali scomodi, quello dei diritti dei
lavoratori, quello delle pensioni, quello delle vacanze al mare che
duravano un mese, e naturalmente anche quello del teatro, quello
della presenza del teatro nel dibattito culturale del nostro paese,
l'amarezza di una generazione dimenticata, sacrificata, che vive
mangiando i propri genitori, non ha la forza di creare il proprio
presente e non vede futuro, non sa più immaginarne uno diverso
dall'acquario scomodo, umiliante e un poco sporco che conosce, una
generazione che sta comoda anche nella propria disperazione, nella
propria “rabbia educata” e totalmente inutile. È la sconfitta di
fronte all'irrealtà suprema che assume ogni atto di ribellione,
quando non si fonda o non si può fondare più su una visione
condivisa, su un “noi”, ormai definitivamente frantumato e
disperso.