ALDO MORTO

ALDO MORTO / tragedia








































oggetti di scena Francesco Givone
disegno luci Dario Aggioli e Marco Fumarola

editing audio Marzio Venuti Mazzi
foto di scena Donato Aquaro, Andrea Chesi, Maria Chiara Giannetta, Claudia Papini,
Futura Tittaferrante, Michele Tomaiuoli
collaborazione artistica Elvira Frosini
aiuto regia, aiuto drammaturgia Alessandra Di Lernia
drammaturgia, regia, interpretazione Daniele Timpano

produzione amnesiA vivacE
con il sostegno di Area06
In collaborazione con Cité internationales des Arts - Résidence d'artistes
Si ringrazia Cantinelle Festival di Biella


Desolato, io non c'ero quando è morto Moro. Aldo è morto senza il mio conforto. Era il 9 maggio 1978. Non avevo ancora quattro anni. Quando Moro è morto, non me ne sono accorto. Ma dov'ero io quel 9 maggio? E cosa facevo? A che pensavo? E soprattutto a voi che ve ne importa? È una cosa importante cosa facevo e che pensavo io a tre anni e mezzo? Aldo è morto, poveraccio. Aldo Moro, lo statista. Che un certo Moro fosse morto l'ho scoperto alla televisione una decina di anni dopo, grazie a un film con Volontè. Un film con Aldo morto. Ci ho messo un po' a capire fosse tratto da una storia vera. Oh, mio Dio! Hanno ammazzato Moro? E quando? Perché? E come? Lo hanno trovato nel bagagliaio di Renault 4 rossa, undici colpi sparati a bruciapelo addosso. Oh, mio Dio! Hanno ammazzato Moro! Brutti bastardi. E vabbè, pazienza. Niente di importante. Cose che capitavano negli anni '70. Bisognava fare la rivoluzione. Chi? Brigate rosse. Era il 9 maggio del 1978. Non avevo ancora quattro anni. Brigate rosse, sì. Ma rosse in che senso?


Un attore nato negli anni '70, che di quegli anni non ha alcun ricordo o memoria personale, partendo dalla vicenda del tragico sequestro di Aldo Moro, trauma epocale che ha segnato la storia della Repubblica italiana, si confronta con l'impatto che questo evento ha avuto nell'immaginario collettivo.
In scena, assieme al suo corpo e a pochi oggetti, solo la volontà di affondare fino al collo in una materia spinosa e delicata senza alcuna retorica o pietismo.

Spettacolo vincitore Premio Rete Critica 2012

Finalista Premio Ubu 2012 "Migliore novità italiana (o ricerca drammaturgica)"

Segnalazione speciale Premio IN-BOX 2012 con la seguente motivazione: 


"Aldo morto" di Daniele Timpano: per premiare una ricerca continua ed estremamente approfondita, portata avanti caparbiamente da un artista che ha raggiunto con questo spettacolo una maturità della cifra stilistica che merita di essere riconosciuta ed apprezzata.


Materiali video

Daniele Timpano a Via Fani / 16 marzo 2012
di e con Daniele Timpano
regia video di Emiliano Martina
assistente alla regia Alessandra Di Lernia




Aldo è morto senza il mio conforto 
Daniele Timpano intervistato da Raffaele Marino




Daniele Timpano: Aldo morto / tragedia
Intervista realizzata in occasione del debutto
al Teatro Palladium Roma (aprile 2012)

 



Working for Aldo - Francesco Givone's work in progress
































foto di Claudia Papini
il progetto per il flyer di Antonello Santarelli

Rassegna stampa

GLI ALTRI
IL VIAGGIO TEATRALE DI DANIELE TIMPANO TRA I "CADAVERI ECCELLENTI" DELLA STORIA: IL CORPO BUONO DI ALDO MORO

di Katia Ippaso

foto di Michele Tomaiuoli
La faccenda è seria, e anche un tantino scabrosa. Divertente, per chi la vuol capire. Insopportabile a chi chiede solo di starsene in pace, la sera, con i suoi libri e i suoi programmi televisivi che parlano di gente morta e sepolta in una forma morta: e sepolta. Un ragazzo nato nel 1974, un "certo" Daniele Timpano - avanguardista di terzo millennio noto nella scena romana e ora anche nazionale -, senza chiedere il permesso a nessuno (storici, giornalisti, critici), qualche anno fa si è messo in testa di fare uno spettacolo sul cadavere di Mussolini, e l'ha fatto, tirandosi dietro ogni volta insulti, minacce, smarrimenti cosmici, accuse di filo-fascismo ma anche di filo-comunismo (una sera, al teatro I di Milano, un gruppo di neo fascisti ha sventolato bandiere e scandito inni a favore del Duce, interrompendo lo spettacolo).
In Dux in scatola è il corpo stesso di Mussolini a parlare, raccontando le violenze subite, dall'esposizione a Piazzale Loreto nel '46 («Mi sputano in faccia, mi prendono a calci, mi pisciano in bocca [...], mi sfondano il cranio, mi sfasciano il naso [...] Sono una massa informe di ossa rotte e materia cerebrale fuoriuscente dappertutto. Mussolini oggetto. Mussolini carne. Mussolini ossa da rompere») fino alla sepoltura a Predappio nel '57: nel mezzo c'è la vicenda del trafugamento della salma e le sue peripezie tra bagagliai puzzolenti e tenebrosi conventi francescani.
«Il tentativo di Dux in Scatola è stato anche quello di riappropriarmi di una materia da cui mi sentivo generazionalmente escluso. Potevo affrontare un argomento come questo. solo a patto di sottolineare questa lontananza, questa percezione della Storia come di qualcosa di innaturale, parte più dell'immaginario che della realtà. Credo anzi che il più tragico segno della crisi terminale dell'antifascismo che stiamo attraversando sia questo: che i nazisti romanzati di Indiana Jones rischino di sembrar più reali e familiari dei nazisti veri» spiega il drammaturgo-performer, rivendicando il proprio diritto ad un rapporto carnale e rituale con la Storia: «Non capisco perché a uno spettacolo venga chiesto quello che non viene chiesto al saggio di uno storico, vale dite una lettura ideologica immediata e una presa di posizione chiara, schierata ad esempio sui vetero-valori di una sinistra i cui connotati, in questo momento storico, non sono nemmeno più così riconoscibili. Come se fosse impossibile a teatro tentare la complessità minima di un discorso sensato».
Non contento di aver disseppellito letteralmente il cadavere del fascismo, Timpano è andato poi a scomodare Mazzini e compagnia bella, arrivando a congegnare un Risorgimento pop. Fastidi e eccitamenti dappertutto. Ma il vero colpo di scena è all'orizzonte. Molti si chiedono con che coraggio questo ragazzo che nel '78 aveva solo quattro anni si è messo a interrogare un cadavere di questa levatura, un totem gigantesco e dolente che funesta da trentadue anni la nostra cattiva coscienza: di Aldo Morto, tragedia per ora esiste solo un frammento, un primo studio (presentato qualche sera fa all'interno di "Novo critico" nello Spazio Kataklisma), ma lo spettacolo potrebbe riservare grandi rivolgimenti. Nessuno si era spinto fino a questo punto.
La ferita è ancora aperta e questo sciagurato giocatore d'azzardo si mette a parlare addirittura con il corpo di Aldo Moro. Quando aveva cominciato a raccontare il soggetto del suo imminente lavoro, tutti avevamo scosso la testa, terrorizzati, sconcertati, per niente divertiti.
Come si può evocare in forma avanguardistica quella fotografia di un uomo già mezzo morto con la scritta "Brigate Rosse" che preme sulle sue spalle di vittima scarificale? Con che spirito si sfiora "il" tabù della storia contemporanea di questo paese? E va bene quello del "cattivo", ma come si fa a toccare, il corpo "buono"? E già Timpano, come si fa?
«Aldo Moro è buono solo nell'immaginario collettivo, con la morte che ha fatto di lui un santino. Non penso sia un cadavere buono, penso sia un cadavere normale, un corpo come tutti, degno certo di rispetto e degno, a suo tempo, di restare un corpo vivo. Moro è un finto cadavere buono, ma senz'altro è anche un morto non più demonizzabile, che ha anzi originato una sorta di senso di colpa collettivo che dura da trent'anni che ha originato milioni di affabulazioni in merito ma che non è stato mai affrontato e che forse ormai non potrà mai esserlo, proprio per tutta la cortina fumogena di chiacchiere, ricostruzioni, testimonianze, rivelazioni e confessioni che l'hanno reso praticamente indecifrabile».
Ne Il corpo del nemico ucciso, lo storico Giovanni De Luna sostiene che non sono i morti a parlare, ma i loro corpi («Il confronto con la morte deve necessariamente passare attraverso il corpo dei morti. C'è chi li abbraccia, li coccola, li culla; c'è chi li isola dietro un paravento, stremati dalla malattia, e poi li espone nella penombra delle camere mortuarie; c'è chi li imbelletta, li trucca, li abbellisce...». C'è, in luce, un'idea di “teatralizzazione della morte”, in ogni gesto che un vivo compie nei confronti di un morto. Ma cosa significa esattamente, nel caso di Timpano, prendere il corpo di un cadavere eccellente e farlo parlare su un palcoscenico?
«Dipende dai lavori. Il corpo di Mussolini evocato in Dux in scatola non è il corpo di Moro, né tantomeno il corpo di Mazzini o le ceneri di Garibaldi, che in Risorgimento pop stanno a indicare più che altro un'Italia cimiteriale, più "non morta" (nel senso degli zombi) che viva. "lo ho creduto evocare l'anima dell'Italia e non mi vedo innanzi che il cadavere", scrisse Mazzini all'indomani della Breccia di Porta Pia, ovviamente delusissimo. Ma senz'altro quello dei cadaveri è anche un pretesto scenico che deriva da una mia esigenza di rappresentare la Storia, di disseppellirne il cadavere, un pezzo per volta. La Storia in sé è un cadavere e lo storico uno che rovista tra cadaveri: Il passato è morto, più di quanto sia vivo, perduto per sempre. Per ritrovarlo, per tentare di farlo, non posso che indossarlo: in questo senso, nel mio teatro il corpo morto è stato spesso un vestito».
Non osiamo immaginare quale potrebbe essere il prossimo soggetto-oggetto di Daniele Timpano. Intanto la prendiamo alla lontana, e gli chiediamo come vede l'uso mediatico del corpo nella contemporaneità, e se ci sono dei corpi (vivi) che disturbano più di altri: «Mah, la Bindi che è bruttina, quello che è calvo, il corpo gay di Vendola, il corpo né maschio né femmina di Luxuria, le foto di Cucchi sui manifesti, quelle dello stesso Moro per un manifesto elettorale del Pd di qualche tempo fa, l'esecuzione di Saddam, i soliti culi e tette femminili e maschili, .il corpo mediatico di Berlusconi, che è un corpo che pare vivere solo nelle inquadrature delle telecamere televisive.... Direi che l'esibizione dei corpi è generale, quasi non ci faccio caso».

Katia Ippaso, «Gli Altri»


Come si potrebbe definire Aldo morto. Tragedia, il geniale spettacolo di Daniele Timpano che ricostruisce - in una chiave irriguardosa, estrosamente personale - gli anni di piombo e l'uccisione di Aldo Moro? Pur rifacendosi alla nostra storia recente, il suo non è un teatro civile, non è un teatro politico, non è un teatro che voglia informare, denunciare, svelare oscuri retroscena. Lo stesso Timpano è un attore atipico, di difficile collocazione: non è un 'narratore', non è un comico. Fa sorridere storto, ma tocca delle corde profonde. L'impressione è che lui si faccia carico di frugare nelle zone buie della coscienza dello spettatore, portando alla luce tutti i nodi irrisolti, tutte le contraddizioni, tutte le inconfessabili meschinità che vi si annidano, e con le quali non si sono mai fatti completamente i conti: persino l'assassinio dello statista risulta - prima che drammatico - scomodo, sgradevole, come se ancora non fosse riuscito a suscitare un autentico compianto. È un trauma, un lutto collettivo, ma segnato da qualcosa di non detto, forse un senso di colpa o un'intima vergogna. In uno stile apparentemente informale, che nasconde però una scrittura aguzza, dove la ferocia convive con la pietas, il testo inquadra da vari punti di vista una vicenda che resta in sostanza più cupamente grande di come non l'abbiano vissuta protagonisti e testimoni: il sequestro di Moro è colto attraverso gli sguardi di telecronisti inadeguati, di commentatori - sia pure illustri - fuori tono, di brigatisti che oggi lucrano sui libri di memorie. Ma non è satira, è piuttosto il ritratto di un Paese sempre al di sotto del suo ruolo. Con sghemba esuberanza, Timpano riesuma deliranti canzoni sessantottine e truci barzellettacce d'epoca, pronuncia un discorso di Renato Curcio indossando una maschera di Mazinga, si traveste - con vistosa parrucca - da Adriana Faranda, fa entrare in scena un'inquietante automobilina telecomandata, una Renault 4 rossa, versione in miniatura di quella in cui fu lasciato il cadavere di Moro, con una minuscola coperta nel bagagliaio. Sembra puro cinismo, e ottiene invece un effetto assolutamente agghiacciante. Ma la qualità più spiazzante di Aldomorto è l'intrepida vocazione dell'autore-interprete a incarnare i nostri cattivi pensieri: e qui di cattivi pensieri ne ha su tutto e su tutti, sui responsabili degli agguati ma anche sui loro bersagli, su Montanelli e Biagi, sullo Stato che «fa schifo ed è tuttora da abbattere». Dice cose disdicevoli che molti, però, prima o poi hanno condiviso, anche se forse nessuno oserebbe più ammetterlo. Ma resta sul filo di un'acre ambiguità, per cui non sai mai se parli per bocca del personaggio o di Daniele Timpano.    

Renato Palazzi, «Il Sole 24ore»


Daniele Timpano firma il suo spettacolo più maturo dopo Ecce robot, Dux in scatola, Risorgimento pop. Aldo morto è un lavoro denso di riflessioni e di domande, vestite con la consueta e straniante leggerezza, un bel testo graffiante per parlare di un avvenimento che chi è nato, come l’autore, negli anni ’70, non ricorda con consapevolezza ma con la memoria esterna costruita da ciò che se ne è sentito dire nei decenni successivi. Timpano rispetta, con distacco, il dramma dell’assassinio ma ne irride tutti gli aspetti retorici e “bassi”: la prosopopea roboante e velleitaria dei terroristi, le teorie confuse sul significato della stella a 5 punte, la deriva letteraria opportunistica dei leader estremisti. Una Faranda in parrucca e occhialoni seventies è una travolgente parodia della mitologia dei brigatisti, un giornalista impacciato si aggira tra i cadaveri di via Fani come in un Cluedo stile C.S.I. de’ noantri. Timpano non è indulgente, sorrisi e serietà sono gli uni funzionali all’altra, le citazioni di Claudio Lolli e le canzoni dell’orgoglio proletario ci mostrano l’incredulità dei quasi quarantenni di oggi che, come anche chi scrive, rimangono perplessi di fronte alla forza distruttiva che teorie folli hanno raggiunto negli anni di piombo. La piccola Renault telecomandata che scorrazza in scena è perfetto simbolo del ricordo collettivo della tragedia e figurina sfuggente di un fatto storico che ancora si cerca di spiegare.  

Elena Scolari, «Paneacqua» 

foto di Costanza Maremmi
“A trentacinque anni di distanza, era il 1978, Daniele Timpano, è “Aldo morto” (edito in “Storia cadaverica d'Italia”, Titivillus), e ripercorre la reclusione dello statista Dc. Timpano è stato capace di parlare senza fare sconti di Mussolini, “Dux in scatola”, gli inizi del berlusconismo, “Ecce robot!”, Mazzini e Garibaldi, “Risorgimento pop”. Qui in un solo di rara efficacia, potenza e ruvidezza, diventa il politico, il figlio, poi torna se stesso, intercala i piani, miscela gli “io”, ribalta le visioni in un concentrato acre di verità. Una polaroid alla Minoli, di grande documentazione lucida senza tesi da difendere. Attacca Biagi e Montanelli, il regista Bellocchio, i brigatisti Faranda e Moretti. Sempre politicamene scorretto. Nelle vesti del figlio ci ricorda Telemaco. Dalla mimica spietata, dall'esuberanza fisica trionfale e autoritaria, una didascalia tutta personale, una punteggiatura degli eventi a scansione emotiva più che cronachistica, la faccia arcaica del santino “cattivo”, tra Gian Maria Volonté e Enrico Maria Salerno, feroce provoca il pubblico, lo scute, lo stana dalla borghesitudine. Mixa con coraggio “La pappa al pomodoro” di Rita Pavone con “Fischia il vento”, “Adesso tu” di Ramazzotti e “Stayn' alive” dei Bee Gees. Tutto affrescato, appuntito il triangolo delle Bermuda della democrazia incrinata: Via Fani, rapimento e uccisione della scorta, via Montalcini, il covo, via Caetani, il ritrovamento nella R4 rossa. Monologo di necessaria libertà di pensiero.”



Tommaso Chimenti, «Il Fatto Quotidiano»



Foto di Claudia Papini
La prima cosa che s’incontra, entrando nella sala dove Daniele Timpano sta per portare in scena Aldo morto. Tragedia, è un foglio al posto dove ci si siederà. Un volantino che reca una prima pagina de la Repubblica, ridotta per necessità e ingiallita per il tempo. Il titolo in alto porta la scritta: “Ore contate per Moro” [...] Al centro una delle immagini mediaticamente più forti e significative dell’ultimo Novecento italiano: Aldo Moro sotto la bandiera rossa e la stella a cinque punte con la scritta Brigate Rosse. Nulla sconvolgerebbe se non fosse che, al posto del presidente DC sequestrato il 16 marzo e ucciso il 9 maggio 1978, c’è il viso di Daniele Timpano. Tutto ciò è determinante per l’intero spettacolo: il suo monologo cerca di raccontare una storia, non raccontandola mai ; Timpano è consapevole – mutuo dalle parole di Celestini in Scemo di guerra – che “i fatti succedono, ma nessuno li può raccontare”, sa quanto se ne perda d’umanità là dove la storia, atteggiandosi a leggenda, troppo spesso quell’umanità tradisce. Per questo la sua indagine inizia da un maestoso falso storico [...] L’intento di ricostruzione puntuale [...] è per Timpano una scelta già nota da altri lavori (per tutti Dux in scatola). La raccolta di materiali, cui dovere fedeltà, è uno degli elementi cardinali della sua creazione, sensibilmente di più rispetto ad altri artisti; il suo carattere performativo poi ne interroga le incongruenze sul suo corpo in scena, ne rintraccia figure diventate icone e sbiadite nella nebbia comunicativa che ne avvolge piccole verità, ravvisa fatti complessi che il tempo ha reso non altro di piatte, svilite notizie, si domanda infine perché accettiamo aldomorto senza mai fare sforzo di conoscere quello ch’era aldovivo. Qui è il nucleo dello spettacolo [...] Timpano si fa portatore del privato aldovivo, facendo parlare il figlio attraverso di lui, che riporta a quella dimensione umana travisata dalla perentorietà dell’immagine: di aldomorto sappiamo ogni spettinatura di capelli grigi, ogni fossetta rimasta sul volto di un uomo ucciso, ma cosa sappiamo di aldovivo? Ma soprattutto ci interessa qualcosa? [...] In questo gioco è ben chiaro il continuo entrare e uscire che c’è tra il personaggio e l’attore Timpano (che qui addirittura interpreta con tanto di parrucca o maschera due personaggi effettivi); attraverso la storia come un personaggio delle fiabe, disperso nei meandri di un periodo storico che fa da cesura netta fra due epoche, lui ci porta il suo passo leggero, quasi aleatorio, ma forse il solo possibile [...] la struttura caotica misura proprio la credibilità di quanto diamo per scontato al proposito della materia in questione; non è forse giusto estrapolare un momento cardine in un lavoro così, ma la presenza della famosa Renault 4 rossa telecomandata e il monologo di Renato Curcio sono grandi punti di forza; [...] Timpano dunque torna nella storia; all’apparenza se ne dichiara ogni volta sconfitto nell’equidistanza, ma la sua indagine rigenera un pensiero atrofizzato, in lui e in chi ascolta. Merito a lui, dunque, di caricarsi tutta sulle spalle questa storia che “è qui davanti a voi. È rimasta così com’è”. Non resta che affondarci, o almeno rendersi conto di quanto, affondati, lo siamo già.

Simone Nebbia, «Teatro e Critica» 
 



foto di Andrea Chesi
Chi conosce il lavoro di Daniele Timpano sin dagli esordi e volesse assistere all'ultimo suo lavoro su Aldo Moro saprebbe benissimo a cosa andrebbe incontro. Ormai, infatti, l’attore/drammaturgo/performer ha acquisito, di spettacolo in spettacolo, uno stile inconfondibile che, all'occhio di uno spettatore attento, concede solo pochi barlumi di incertezza. Ed è altresì chiaro, anche a chi da una parte e dall'altra si indignò scioccamente per “Dux in scatola” o per “Risorgimento Pop”, trovandoli in qualche modo blasfemi, che il nostro eroe, destrutturando tutto ciò che incontra, conduce sempre il suo gioco sul filo del rasoio, dove il sarcasmo regna sovrano tra documentazione storica, il più delle volte solo apparentemente veritiera, e ricordi personali proposti in estrema libertà e analisi politica. Proprio qui stanno la forza e la peculiarità del suo teatro. Tutto ciò è infatti puntualmente avvenuto da “Dux in scatola” a “Ecce Robot” fino a “Risorgimento pop”, in cui venivano visitati con estrema provocazione tre momenti della storia del nostro Paese. [...] il tutto raccontato attraverso una narrazione che tende alla divagazione, alle pause calcolate, che si nutre di esemplificazioni paradossali, di aneddoti, di colloqui con oggetti, finanche di bui e di uscite di scena. [...] Ed ecco ora lo spettacolo su Moro [...] il modo di condurre ogni elemento dello spettacolo ora è meno episodico, meno frammentario, e tutto il complesso apparato drammaturgico che lo contraddistingue, composto ancora una volta da dati oggettivi spesso messi in discussione, ricordi personali e sapiente gioco del dentro e del fuori l'attore e i personaggi che interpreta (il figlio di Moro, il reporter, Adriana Faranda, Renato Curcio-Mazinga) si è perfettamente amalgamato, e consente all'interprete di cogliere tutte le sfaccettature del tema trattato, restituendocene tutti i significati in chiave attuale. E sempre tra profondità e leggerezza, come quando Timpano dialoga teneramente con una piccola Renault 4 rossa (ricostruzione di quella dove fu trovato il corpo di Moro) telecomandata dal fedele Dario Aggioli, che ha anche curato il piano luci dello spettacolo. 

Mario Bianchi, «Krapp's Last post»


Un altro notevole geniaccio del teatro italiano ancora in attesa di una definitiva consacrazione è Daniele Timpano [...] artista anomalo, estrosissimo, bizzarro, difficile da inquadrare: anche lui specialista del monologo, anche lui intelligente autore dei testi su cui lavora, lo si potrebbe definire un attore che si traveste da affabulatore, o un attore tragico che si traveste da comico, ma le etichette comunque gli vanno strette. Diciamo che, nel complesso, è una presenza imprevedibile, spiazzante anche nel modo un po’ rigido e sghembo di stare alla ribalta, come di uno che ci è capitato suo malgrado, che avrebbe dovuto fare ben altre cose nella vita. Ma anche questa è una parte che recita abilmente.
La prerogativa di Timpano, quella che ne fa un caso insolito e tutto sommato forse unico, sulle nostre scene, è la sua vocazione ad affrontare temi scomodi, e a proporli in una chiave tutt’altro che “corretta” o rispettosa. Non è che si limiti a individuare una materia controversa, e la inquadri con un qualche sforzo di sereno distacco: in realtà lui cerca proprio di occuparsi di questioni adatte a far incazzare tutti quanti, a suscitare (a ricercare) in ogni caso delle reazioni di fastidio o di sdegno. Si direbbe che il ruolo che si è scelto sia proprio questo, di scavare nei sotterranei della nostra coscienza collettiva, di portare alla luce certi grovigli di pensieri e sentimenti oscuri, rivelandoci tutto il peggio che ci sia passato per la mente, e che non oseremmo mai riconoscere apertamente.
Il tratto caratteristico dell’atteggiamento di Timpano, il segno della sua personalità teatrale complessa e originale è in un’incerta identificazione con l’io-parlante cui sta dando voce alla ribalta, e che è sempre il risultato di un precario miscuglio fra lo stesso Daniele, il personaggio da lui più o meno fedelmente incarnato e un retroterra di pulsioni che, ci piaccia o non ci piaccia, fanno parte del nostro sentire comune: per cui di norma può permettersi di dire delle cose terribili, da far rizzare i capelli, ma non sai mai se stia esponendo le proprie opinioni o enunci invece delle idee diffuse, se si riconosca in esse o ne prenda viceversa le distanze.
A testimonianza di una vena che è da sempre provocatoriamente controcorrente, lo spettacolo che l’ha imposto all’attenzione è stato il discusso Dux in scatola, in cui trattava del trafugamento della salma di Mussolini, raccontato paradossalmente in prima persona, dal tormentato punto di vista del Duce, con una pietas così sottilmente ambigua da esporlo all’accusa di eccessiva acquiescenza nei confronti del fascismo: ma si trattava di fatto, secondo la sua consuetudine, non di adesione o di rifiuto nei confronti di un determinato orientamento, ma di un modo di confrontarsi con una questione più vasta e articolata, ovvero con le contraddizioni, con le zone d’ombra di una nazione che non ha mai del tutto chiuso i suoi conti col ventennio.
Anche al centro del più recente Risorgimento pop – in cui Timpano era insolitamente affiancato da un alter ego, l’attore Gaetano Ventriglia – c’era un cadavere, quello grottescamente mummificato di Giuseppe Mazzini, beffardo emblema di un corpo morto ridotto a pezzi, quello dell’Italia, che i Padri della Patria hanno invano tentato di rimettere insieme: “Ma l’Italia non risorge” dice lui “e questa non Resurrezione l’abbiamo chiamata Risorgimento”.
Nel lavoro precedente, Ecce robot!, rievocava invece con ossessiva minuzia intere puntate di un cartone animato giapponese, cogliendo l’occasione per prendersela con quei genitori democratici e progressisti che avversavano mostri meccanici e battaglie spaziali. Gli stessi umori corrosivi e surreali ritornano, ma come dilatati in un respiro più alto, nel suo ultimo spettacolo, Aldo mortotragedia, dedicato agli anni di piombo e all’omicidio di Aldo Moro, rivisitati con l’occhio di una generazione che stava nascendo proprio allora. Mettendo insieme prospettive diverse – gli approssimativi resoconti di telecronisti accorsi impreparati sul luogo della strage, le analisi di commentatori anche illustri, ma sovente inadeguati, le esternazioni di brigatisti pronti a lucrare sui libri di memorie, la visione zuccherosa di un ipotetico figlio dello statista assassinato – Timpano traccia il ritratto di un Paese perennemente sospeso tra cinismo e retorica, tra furori ideologici e meschini compromessi, sostanzialmente mai all’altezza delle responsabilità che gli vengono assegnate dalla Storia. Dietro uno stile apparentemente informale, l’attore-autore confeziona in realtà un testo denso e raffinato, in cui convergono truculente canzoni sessantottine, acri riflessioni sulla morte, barzellettacce d’epoca, richiami a volte dissacranti persino al mito Pasolini, citazioni da articoli di giornale.
C’è una sgangherata parodia di Adriana Faranda con una vistosa parrucca, c’è un discorso di Renato Curcio pronunciato indossando una dissennata maschera di Mazinga. Il tutto va a comporre l’affresco di una grande tragedia mancata, un trauma collettivo, ma vissuto forse senza dolore, senza il senso condiviso di un autentico compianto.
Con la sua stralunata inventiva, Timpano porta in scena un’inverosimile stella a cinque punte luminosa, un’automobilina telecomandata, versione in miniatura della Renault 4 rossa in cui fu trovato il cadavere di Moro, e fa sentire alla fine – con effetto un po’ agghiacciante – un arzigogolato discorso scandito dalla viva voce di quest’ultimo. Ma il marchio di fabbrica è la ferocia verbale, sono le disdicevoli considerazioni sugli attentatori di Montanelli, che non avevano in fondo tutti i torti, o su Enzo Biagi, che avrebbe dovuto subire la stessa sorte.
Parla sul serio, critica, deride? Ci pone comunque faccia a faccia con quelle che a un certo punto sono state le inconfessabili convinzioni di molti, coi nostri cattivi pensieri, con le nostre segrete vergogne.

Renato Palazzi, «LINUS»




La morte di Aldo Moro può essere raccontata come la telecronaca di una partita scialba, in venti secondi di banalità. È così che Daniele Timpano ci accoglie nel suo agone: con il risultato estremo della spoliazione retorica. Però "la sintesi è una truffa", ci dirà quasi un'ora più tardi, nel corso di quello che è il suo più lungo spettacolo (lunghezza per la quale si scusa più volte, pretestuoso come un Plauto): e allora, se la sintesi non è possibile, anzi è ipocrita, benvenuti nel mondo della complessità irriducibile. Il mondo cui Timpano ci ha abituato, quello in cui abita meglio, in cui usa la sua compostissima scompostezza [...] come principale arma di un mestiere antico. [...] Timpano fa venire in mente l'intelligenza del guitto che, assorbendo su di sé il comico e il buffo, schiude le difese degli spettatori alle ferite di interrogativi tragici. Per non parlare della sua espressività corporea, la dinoccolata follia con cui occupa il palco dando la sensazione di trovarsi lì per caso e allo stesso tempo di aver sotto controllo ogni dettaglio: come quando, a livello recitativo e testuale, sembra perdersi nelle sue tipiche, micidiali digressioni, riuscendo sempre a tornare al dunque. [...] Aldo morto. Tragedia, si chiama questo spettacolo. La tragedia non sta solo nella morte in sé, ma soprattutto nell'impossibilità di raccontarla davvero, di afferrare una verità oltre le convenienze personali, il comodo, la distorsione del punto di vista. [...] Timpano sceglie di parlarci attraverso un continuo slittamento di identità: si presenta all'inizio come sé stesso, attore nato nel 1974, dunque senza ricordi diretti del rapimento e dell'uccisione; poi diventa un figlio mai nato di Moro, lasciando baluginare gli aspetti più intimi del dramma familiare; poi uno dei rapitori [...] le prospettive si sommano e non si unificano. Perché l'identità è illusoria, e "io" è una parola come le altre da cercare su Google, convinti magari che si tratti di un'azienda del terzo settore. Capita, allora, che lo pseudo-figlio di Moro si spertichi in un inno di amore e odio per i primi anni Settanta, prima di ricordarsi che, nato nel '74, quelle cose non potrebbe neanche saperle. Alla ricerca dell'autenticità, sarebbe il caso di recarsi di persona in via Caetani, di respirare e sentire la storia sulla pelle, ma in fondo non è più comodo usare Google Earth? Orfano di verità, l'attore riserva non poca ironia a Bellocchio, agli ex brigatisti, alla figlia stessa di Moro, a chiunque abbia tentato una narrazione del rapimento e del contesto in cui avvenne, accontentandosi magari di un facile pietismo. Peggio di tutti, gli ex terroristi, pentiti e commossi di guadagnare diritti d'autore dal capitale che pretendevano di distruggere. E nessuno speri di aver conforto da qualche deus ex machina, perché stavolta il deus è in machina, e precisamente sulla tristemente famosa Renault 4 rossa, bara di lamiere nel nostro immaginario collettivo: una macchinina radiocomandata fa infatti da spalla a Timpano nella seconda metà della pièce [...] E come si fa a non urlare, di fronte al dissidio irresolubile: condannare la violenza, riconoscere la propria incapacità di usarla; però non poter fare a meno di registrare il fallimento delle vie alternative, lo schifo dell'Italia di oggi, la voglia fin troppo sopita di spazzare via con la forza, una volta per tutte, una classe politica vergognosa ed ignorante. "Aldo Moro io lo ammazzerei di nuovo", tuona questa frase e non potrebbe essere, nonostante il contenuto apparente, più straziata e più problematica.Timpano, come i migliori scrittori sperimentali, come Tommaso Landolfi o come Ernest Safran Foer, riesce a narrare e a mettere in discussione la stessa narrazione. Rispetto a Dux in scatola o a Risorgimento Pop, Timpano fa un enorme passo in avanti: con Aldo Morto i suoi congegni demistificatori non si esauriscono più in sé stessi. Non si ferma più all'ironia, all'iconoclastia, ma va oltre, pur non ricorrendo alle affermazioni, in cui non crede e probabilmente non crederà mai. Non assistiamo più semplicemente a un'antinarrazione, ma a una narrazione capace di autocritica: un gioco di specchi, in cui si pretende di simulare un racconto e sottrargli ciò che quel racconto ha di falso, di inevitabilmente falso. Stavolta, pur senza mollare anche un solo briciolo sul piano della lucidità e della ferocia critica, il risultato di questa sottrazione non è zero. [...] Timpano è riuscito a piegare la sua maschera, la sua immagine laccata d'ironia, ad un racconto più esposto. È lui, e non il suo alter ego, a chiedersi, in una delle più significative scene dello spettacolo, se sia il caso o no di leggere al pubblico una lettera personale, una lettera piena d'affetto di Aldo vivo. È lui a raccontare della morte del nonno, di suo nonno, a donarla al pubblico per cercare di condividere la solitudine più ultima e assoluta. È anche sua, dunque, la tragedia del titolo, la tragedia di ogni artista che, pur sentendo il bisogno dell'autenticità, non può fare a meno di credere che, tra i suoi compiti, ci sia innanzitutto quello di smascherare il falso. Timpano chiuderà quella lettera senza leggerla: a noi, però, rimane la testimonianza di una necessità, di un sentimento. In cui forse Aldo Morto è un po' meno morto: e non è poco.

Michele Ortore, « Teatroteatro.it »

Continua con “Aldo morto” la splendida galleria di cadaveri eccellenti della storia italiana a cura di Daniele Timpano, un attore-scrittore romano dalla presenza dinoccolata, apparentemente ingenua, capace di affondi acuti nelle rimozioni e infamie nazionali con spettacoli che mettono in moto passioni e idee. [...] È la vicenda del sequestro e assassinio del politico democristiano raccontata da uno che nel 1978 aveva quattro anni e vedeva i cartoni animati giapponesi. La Storia diventa una trama non ricomposta di verità contraddittorie quanto i punti di vista, con una tendenza tutta italiana a volgere ogni cosa in spettacolo. Scorrono giornalisti che lucrano sul sangue, quadri familiari, slogan truculenti del Movimento di quei tempi, film e filmacci, libri di successo dei brigatisti, in un lavoro di sottile indignazione e molteplicità di umori che si accende nell'orrore davanti alla morte, nella pietas, nel senso di impotenza generazionale.

Massimo Marino, «Corriere di Bologna»

"Daniele Timpano [...] con questo monologo crudo ma stemperato dall'ironia e dalla poesia che sgorga dalle ferite della commedia umana quando se ne gratta via la crosta, ha scosso il pubblico del Teatro Laboratorio nell'interpretazione del suo lavoro super partes rispetto ai contenuti politici, vincitore di un prestigioso carnet di premi. Quando nel 1978 Moro fu rapito e ucciso [...] Timpano non aveva ancora quattro anni e sta proprio nel taglio di tempo che va da allora ad oggi la forza del racconto che induce il pubblico ad un processo di scavo mentale ed emotivo per chi oggi ha 50-60 anni , e di ricerca per coloro che quando accaddero i tragici fatti giocava ancora con le bambole o le macchinine, magari rosse come il modellino che ha circolato in scena, telecomandato: non a caso di una Reanault 4 rossa. [...] Emblematica, nel racconto, la frase paradossale che traduce l'impatto dell'opinione pubblica con la morte propinata sul piccolo schermo e che non vale solo per gli anni di piombo: Hanno ammazzato Aldo! Brutti bastardi. E vabbè, pazienza. Niente di importante. Cose che capitavano negli anni '70. Bisognava fare la rivoluzione.


Michela Pezzani, «l'Arena di Verona»

foto di Claudia Papini
Quello che colpisce degli spettacoli di Daniele Timpano è la grande intelligenza drammaturgica con la quale li costruisce tramite un personaggio-attore che incentra il discorso col pubblico sul proprio privato, sui propri ricordi, e sul proprio vissuto, sulla propria storia e le proprie idiosincrasie. Naturalmente si tratta di una invenzione teatrale perchè il Daniele Timpano che vediamo in scena non è l'uomo e nemmeno l'attore, ma sempre un personaggio. Un personaggio che si chiama Daniele e che fa l'attore. Un attore dalla postura dinoccolata, nervosa e fiera, che affascina e distrae il pubblico. Lo distrae presentandogli date, luoghi, circostanze dell'argomento affrontato nello spettacolo, come fossero il frutto di un suo personale e puntiglioso interesse per il dettaglio, mentre sono le tappe di un pezzo di storia collettiva che lo spettatore in sala, per motivi anagrafici, per insipienza propria o memoria corta, dimentica di sapere, e forse non sa davvero più.
Eppure dovrebbe perchè il tipo di conoscenze che Daniele porta in scena, raccontandole, commentandole, recitandole, declamandole, assumendo ora il punto di vista di un personaggio storico ora quello di qualcun altro, non sono il bagaglio snob di un erudito che fa pesare le proprie conoscenze, ma, pur se basate su una ricerca seria e davvero d'ampio respiro, le conoscenze minime e indispensabili che fanno di una persona un cittadino informato del mondo (della società) in cui vive. [...] Con una irriverenza indovinata e necessaria, anche verso il pubblico, di volta in volta inquadrato come ignaro dei fatti, indifferente o comunardo, ma con un profondo rispetto per il senso della Storia e per la dignità delle persone Timpano affronta il personaggio Moro da ogni punto di vista. Quello personale e umano, attraverso i ricordi delle sue figlie, così come si desumono nei loro libri, facendole riportare al figlio che interpreta sulla scena; quello politico e pubblico (Timpano cita un suo discorso fatto alle Acli nel 1966, che ci farà sentire dalla voce vera di Moro a fine spettacolo, mentre il pubblico lascia la sala) in un confronto scontro con la memoria storica che nasce sempre dalla ricerca e dall'informazione [...] In un'ora e quaranta di spettacolo (che non è affatto vero, come dice in scena, celiando, che è troppo lungo e che annoia, anzi il tempo vola per quanto sa tenere la scena, da solo, con l'ausilio di pochi strumenti scenici) Timpano percorre in lungo e in largo i quarant'anni di storia italiana che hanno come epicentro il rapimento, e la morte, di Aldo Moro. [...] critica la Storia d'Italia a fumetti di Biagi che dedica all'intera stagione degli anni di piombo una sola vignetta... (le semplificazioni - dice giustissimamente Timpano - sono una truffa) ritornando sempre su quei 54 giorni (non 55 come riportato da tutti perchè all'alba del 55mo giorno Moro era già morto...) di prigionia, dal rapimento all'assassinio.
Tra brigatisti pentiti che oggi scrivono libri (Adriana Faranda, in una splendida spassosissima imitazione) o aprono case editrici (Curcio), tra culto della persona (ancora Curcio che in scena si incensa novello Mazinga), proclami rivoluzionari e simboli di provenienza incerta (la stella a cinque punte delle BR che ha analogie con simboli di ambiti lontanissimi, dalle logge massoniche, alla Repubblica italiana alla Virgin) Timpano evoca il clima politico di quegli anni, dalle rivolte sessantottine agli anni di piombo, passando per la strategia della tensione, verificando il discorso politico di allora anche tramite le canzoni impegnate dei cantautori di sinistra (da Claudio Lolli a Gianfranco Manfredi).
Nel ritornare sempre ai fatti [...] Timpano ricorda come la ricostruzione dei giorni di prigionia si debba esclusivamente alle dichiarazioni dei brigatisti, che pretendono Moro sia rimasto rinchiuso in una stanza di un metro per tre (dichiarazioni che non hanno riscontro con le prove autoptiche che non mostrano atrofia muscolare nel cadavere di Moro) dichiarazioni indotte da un apparato legale creato ad hoc che ha permesso loro di dissociarsi e pentirsi e che nessuno dei 5 processi o le due commissioni parlamentari sono riuscite a verificare.
Insomma il respiro drammaturgico di Aldo morto è, stavolta più che mai, squisitamente politico, dove l'aggettivo non si riferisce naturalmente all'uso svilito che ne fa oggi la nostra classe dirigente, ma si riferisce alla vita nella città e alla responsabilità etica e, appunto, politica che ognuno di noi deve assumersi quando, dinanzi certi fatti, certe affermazioni (di giornalisti che scrivono pezzi di una retorica insostenibile e stantia), certe semplificazioni della storia, non può rimanere indifferente. Come ricorda ne
La sequenza del fiore di carta Pasolini (che Timpano cita ben tre volte anche per operare una sottile critica alle posizioni espresse da Pier Paolo nella sua famosa poesia Il Pci ai giovani!!) l'innocenza non giustifica, e data la complessità del mondo, bisogna conoscerlo e anche il sottrarsi a una presa di posizione ha un significato politico. Non ci si può sottrarre non per adesione aprioristica e dogmatica da tifoseria, ma, al contrario, per un gesto di indignazione che, se manca, rende tutti complici, del passato come del presente. Timpano, con coraggio e onestà intellettuale affronta così anche il nodo, rimosso, che, finito il terrorismo di sinistra coi pentiti e i dissociati, non si è più affrontato: la legittimità politica della lotta armata. E' ancora percorribile? Lo è mai stata? Timpano trova l'unica risposta praticabile, dopo aver accennato all'inadeguatezza della classe politica contemporanea, degli slogan presi ai cantanti pop (Baglioni e Blasco) dell'attuale opposizione (“Oltre” e “Dare un senso”) in un diniego, ma non per motivi etici (che anzi una parte di sé - sempre il sé personaggio naturalmente - vorrebbe uccidere proprio come l'altra parte non vorrebbe) ma perchè sa che nello stato delle cose contemporanee del nostro paese non c'è spazio per alcuna reazione, armata o no che sia.
Esempio squisito di teatro politico e civile in Aldo Morto il personaggio Timpano si dispera, piange, ride, si incazza, suda, commenta, commuove, fa ridere e riflettere, e occupa pienamente quell'ultimo spazio di manovra che sembra esserci rimasto quello del dissenso privo di dogmi che critica gli opportunismi di destra come quelli di sinistra ma che restituisce dignità al comunismo che, “In quanto dottrina delle condizioni della liberazione del proletariato [cioè di] quella classe della società che trae il suo sostentamento soltanto e unicamente dalla vendita del proprio lavoro, e non dal profitto di un capitale” parla proprio di Timpano e della maggior parte di noi spettatori.
Se la storia contemporanea venisse insegnata nelle scuole e all'università con l'onestà, l'ingegno e la passione drammaturgica di cui Timpano infonde i suoi spettacoli, saremmo tutti più informati, più critici e consapevoli, in una parola dei cittadini migliori e davvero liberi.

Alessandro Paesano, «Teatro.org»



“In Aldo morto / Tragedia di Daniele Timpano la vera imputata è la storia, anzi la nostra incapacità, impossibilità di raccontare, di dipanare la storia. L’attore romano deve essere partito dalla domanda: il teatro, l’arte, può interpretare i tempi che abbiamo vissuto? E la risposta, al contrario di tutto il teatro politico e di narrazione, che ci spiega ogni cosa, è: decisamente no.
Sembra dirci: io, sul palcoscenico, posso solo mostrare il mio punto di vista; io, nel 1978, quando Aldo Moro fu sequestrato e ucciso dopo quasi due mesi di prigionia, avevo quattro anni. Se qualcuno gli obiettasse che noi comunque discutiamo di fatti di epoche in cui non eravamo nati, la risposta, con un sorrisetto impacciato, sarebbe: già, ma quale verità c’è nei nostri discorsi?
Il bellissimo, dolorosissimo spettacolo [...] apre più di una questione e lascia molti spettatori dubbiosi. Perché Timpano sembra essersi assunto il compito di fare una controversa antistoria d’Italia attraverso alcuni cadaveri eccellenti. In Dux in scatola ha narrato il fascismo storico e quello postbellico attraverso le vicende della scomparsa della salma di Mussolini (ma ha raccontato, così, anche la nostra Italia democratica e antifascista). In Risorgimento pop, intorno alla mummia di Mazzini ha ripercorso non tanto l’epopea dell’Unità quanto i buchi di un Paese mai veramente compiuto, e tutta le retorica che esso sa ritrovare intorno agli anniversari.
In Aldo Morto si identifica, anche fisicamente, in Moro, si trasforma in un suo figlio che si chiama Daniele, ripercorre le vicende di quei giorni, di quegli anni di lotte e contrasti, come se fossero puntate dell’infinito talk show nazionale, del continuo spettacolo televisivo zeppo di pubblicità che siamo capaci di allestire su morti, conflitti, idee, con evidenti sconfinamenti nella truculenza da tifo calcistico che ricorda il nostro scarso distacco dalle radici di clan, campanile, fazione.
Interpreta, con la sua aria dinoccolata apparentemente ingenua e inetta, pasticciona, l’uomo politico democristiano, e ne nota una somiglianza con un eroe dei fumetti come Nathan Never, con quella pinna bianca nei capelli. Evoca, con toni beffardi, brigatiste che hanno fatto libri più o meno di successo del loro pentimento e altri non pentiti che si sono spostati “sul sociale”; brutti film e attori vati da strapazzo. Irrompe sulle note di “Viva la pappa col pomodoro” e con la maschera di Mazinga, evoca slogan e canzoncine sanguinarie che si cantavano nei cortei in quegli anni promettendo di spaccare teste a poliziotti e via dicendo. Non mancano gli inviati sul luogo della strage di via Fani, grotteschi, cinici, di fronte alla “marmellata di sangue” che imbratta l’asfalto. E neppure i riferimenti al fatto che, con cinque processi, non sia accertata una verità credibile.
Lo spettacolo corre con toni da cabaret impietoso, tra Renato Curcio e Ramazzotti. Ma ha qualcosa in più, che ne fa un lavoro unico, da vedere, rivedere, ripensare. Vi si coglie il senso di impotenza generazionale di chi percepisce che la storia è impossibile farla: che rimangono gli eventi, le ferite, il sangue, le divisioni, le conseguenze, e mai un’interpretazione appena coerente. Dappertutto? Sicuramente in questa bella Italia di menzogne. Allora non resta che rifugiarsi negli umori, nell’indignazione, nello sberleffo, nella pietas, nell’orrore inconsolabile per la morte. Nel teatro, come veicolo di emozioni personali, come lingua dello smarrimento, come ricerca di (insidiata) presenza. Da questa storia di misteri e ipocrisie spicca la figura tragica di Moro, un provinciale tecnocrate che porta le mozzarelle del paese ai figli e parla con un linguaggio forbito e arzigogolato d’altri tempi. Spiccano il dolore umano e la ripugnanza per anni che invocavano la violenza come palingenesi, come se il sangue versato non fosse sangue vero. Timpano guarda con piglio da moralista la capacità di ridurre tutto a spettacolo degli italiani e di lucrarvi sopra. Ma soprattutto si fa e ci fa domande sgradevoli: sì, la violenza è orribile, la mistica della violenza era a volte pagliaccesca tra le sigle rivoluzionarie anni settanta, ma oggi la violenza mi cresce intorno e la rabbia mi monta dentro ogni momento, con il precariato, con i politici di fumo o peggio… verrebbe da prendere la P38… dice; e poi, in anticlimax: ma io non lo farei…
La verità rimane nebbia, in quel teatrino di guitti che è l’Italia, dove forse non si può far altro che accumulare visioni e contraddizioni. Timpano lo fa a meraviglia, cosciente, con sorriso dolce e insinuante, che “il teatro non è un pranzo di gala”, e che tra servizi, P2, 3 e 4, P38, marketing e spettacolo, “questo stato, il mio stato, fa schifo”. Per esorcizzare la ferocia della fine, irrimediabile, non resta che rifugiarsi nel gioco, con quel modellino di R4 rossa targata Roma dove fu trovato il cadavere di Moro, mentre scorre la telefonata di Morucci. L’attore si trasforma nell’uomo politico sequestrato sotto una stella a cinque punte fosforescente nel buio, identificandosi in un’icona di un Paese che non sa guardare dietro le proprie immagini, dietro le proprie tragedie.”
Massimo Marino, «Doppiozero.com»





Un bel mattino ci sveglieremo e capiremo che siamo morti: così cantava Claudio Lolli nel 1973 e così troviamo scritto in esergo nell’edizione a stampa di "Aldo morto", il dissacrante monologo di Daniele Timpano [...] Una citazione a metà tra il presagio iettatorio e il rimando alla cronaca, che introduce l’ultimo atto di una trilogia sui morti eccellenti capaci – in vita e non solo – di determinare il corso dei primi centocinquanta accidentatissimi anni del nostro paese. Nel volume "Storia cadaverica d’Italia", pubblicato da Titivillus nel 2012, sono, infatti, raccolte tre mummie regali, tre nobili salme utilizzate come arieti per disintegrare le mitologie laiche su di esse erette, nonché come mappe consunte su cui rielaborare con foga iconoclasta altrettanti periodi storici: quella di Giuseppe Mazzini (1805 – 1872) in "Risorgimento pop", quella di Benito Mussolini (1883 – 1945) in "Dux in scatola", e infine quella di Aldo Moro (1916 – 1978) in "Aldo morto". [...]
Il suo ultimo spettacolo, che lo vede protagonista di un tour de force recitativo di quasi due ore, prende le mosse da uno dei più drammatici fatti del secondo dopoguerra italiano: il rapimento dello statista democristiano da parte delle Brigate Rosse il 16 marzo 1978. A questo crimine seguirono, com’è noto, cinquantacinque giorni di prigionia e l’esecuzione, il 9 maggio, con il corpo simbolicamente ritrovato nel bagagliaio di una Renault 4 in via Caetani, tra le sedi di Dc e Pci. Da lì, dalla sparizione dell’ideatore del Compromesso storico, prende articolazione con distratta disinvoltura (Vabbè, niente d’importante sono le prime parole) un racconto il cui scopo primario è la decostruzione sistematica e inarrestabile delle retoriche e l’eliminazione di tutte le muffe – politiche, culturali e giornalistiche – che hanno modellato la memoria collettiva dell’evento. La tronfia sicumera del narratore dal pulpito in possesso di una versione incontestabile da elargire magnanimamente lascia qui il posto al procedere nervoso, quasi nevrotico, per strappi e salti logici, di un anti-narratore stralunato apparentemente perso in un frammento di Storia che non ha vissuto con consapevolezza (aveva tre e mezzo all’epoca, ci viene ricordato all’inizio) e che non può di conseguenza conoscere se non di riflesso, in conformità a materiali tanto eterogenei e caotici quanto parziali e fallaci. I santini, i feticci e le verità ufficiali implodono dunque a ritmo implacabile, all’interno di un processo di sabotaggio sarcastico e ribaltamento costante. A cominciare dall’Io dell’attore-drammaturgo che, nella furia evocativa e nell’accumulo di situazioni, temi e personaggi, si sfalda, penetrando (e sdoppiandosi) in identità lontane, senza che lo spettatore riesca a prevedere gli scarti improvvisi. Sfilano così il figlio di Moro che racconta stentatamente il privato anonimo e le abitudini del padre, i reporter microfonati e ottusi alle prese con la scena del sequestro in via Fani, gli artisti e gli intellettuali che hanno scritto o teorizzato sullo psicodramma repubblicano negli anni (abbattuti in fretta e senza pietà), l’ex brigatista Adriana Faranda (trasformata in una coatta compiaciuta delle vendite del suo romanzo) fino al carbonaro Renato Curcio (sproloquiante sulle note di Eros Ramazzotti: rischiosissima ma indicativa iperbole). Sguazzando coscientemente incosciente – ossimoro necessario - nel calderone della Storia, Timpano scimmiotta e sfotte, ridimensiona e indaga, recrimina e interroga, fa conflagrare l’alto e il basso, mitragliando il pubblico con parole, sigle, citazioni e stralci di canzonette: tutte testimonianze di un passato incartapecorito e sbiadito, ridotto ad ambigua pergamena, le cui uniche certezze non sono, in fondo, che i cadaveri. L’Affare Moro diventa così un contenitore, un perimetro all’interno del quale recuperare e ricollegare percorsi (dalla fondazione delle Brigate Rosse alle incongruenze e omissioni della ricostruzione post-processuale), ma soprattutto sezionare un paese intero e, al contempo, il suo pericolante passato e il suo sinistro presente. Alla fine di questa lunga e spesso esilarante autopsia, l’ambiguità della Storia resta inalterata (non sarà certo un teatrante, si ripete più volte, a fare chiarezza) e l’effetto Alka-Seltzer è fortunatamente evitato dall’instabilità dello sghignazzo e da un’angoscia serpeggiante che salvano il monologo sia dalla rigidità tipica di molto teatro di narrazione sia dalla possibile deriva cabarettistica. Per lo spettatore, al ruttino catartico, preludio agli applausi più scroscianti, si sostituisce perciò il disagio di chi, entrato in sala per partecipare a un rito scenico con valenza funebre e memoriale, si trova a uscirne interdetto e zuppo a causa di un’inaspettata e violentissima doccia scozzese. Un disagio salutare, risultato di un’esperienza teatrale certamente discutibile, ma, per una volta, degna di essere vissuta fino in fondo, e senza autocensure o preconcetti.

Massimo Lechi, «Cinemaeteatro.com»




Aldo Morto di Daniele Timpano [...] è un ulteriore lavoro dell’artista romano sulla potenza iconica dell’oblio della Storia, un tema caro e già affrontato, pur con altra lettura, a proposito di Benito Mussolini nel suo Dux in scatola, che parecchie polemiche ebbe a sollevare cinque anni fa. Questa volta con Aldo Morto [...] il focus è chiaramente sullo statista assassinato dalle Brigate Rosse (?) nel maggio del 78. Il punto interrogativo è d’obbligo visto il taglio che Timpano conferisce fin da subito al testo, che proprio facendo leva sulla forza dell’oblio a distanza di quasi 35 anni dall’evento, trasporta quella che è stata una chiave di volta della storia politica repubblicana, in un magma di persone-personaggi, vicende, piccoli frangenti umani e familiari che contribuiscono ad alimentare un non-ricordo mistificato, che travalica da subito i confini del vero ma che non abbandona mai il recinto del verosimile.

Quella dell’attore/drammaturgo è un’interpretazione nuda, che lo porta ad affrontare il pubblico in un confronto privo di scenografie di supporto e altri orpelli di scena, eccezion fatta per una mascherina da Mazinga (che riporta ad altri lavori e al confronto in termini di grammatura mnemonica, anche questa volta dichiarato, fra il passato della Storia e una qualsiasi puntata cartoon), oltre ad una riproduzione in scala della celebre R4. Così fra Renato Curcio e Mazinga Z, nella mente di un quarantenne distratto, finisce per esserci poca differenza, e questo pretesto sviluppa un narrato che si mantiene [...] intenso e potente, affidato ad un’interpretazione quasi anti recitativa, che beccheggia fra discussione colloquiale e momenti di mimo appassionato ma mai pulito, anzi volutamente ruvido e anti-accademico. L’intreccio narrativo parte dall’identificazione fra Daniele e il figlio dello statista, che si chiede e chiede che germi conservi la Storia, quella dei libri, dell’epopea nazionale, della vicenda familiare, di quel vero intimo di cui mai si conserva traccia nella memoria. Da questo interrogativo ne partono poi altri sul vero della vicenda del rapimento, sul vero della storia delle Brigate rosse, sul vero della cella 3×1, sul vero nel cinema e nei racconti à-la-Mixer. Il sarcasmo sull’epopea sociale è continuo, e dialoga con il pubblico in forma non mediata, fino a portarlo quasi in scena, puntando su qualche spettatore il faro dell’interrogatorio proletario.



Renzo Francabandera, «Paneacqua»
foto di Camilla Cerea
Stralunato, strampalato, stranito. Arriva in scena completo e cravatta scuri, quasi iena, tradito da un'andatura che fa del disequilibrio matrice poetica ed espressiva. Infantile e arguto, saettante e maligno, dà vita a un monologo estenuato, puntuto, in smarcatura perenne da quella coltre di retorica che sembra moneta unica in corso da parte di coloro che si prendono la briga di parlar di quegli anni Settanta così lontani (per orizzonti ideologici, pratiche sociali, rivendicazioni culturali) e così vicini (perché i problemi son quasi gli stessi e per aver costituito, in molti settori, il primo imprinting di forme tuttora in vigore). Se dovessimo, non senza violenza, con-tenere Daniele Timpano, solista teatrale di bella carriera ed ex collega di paradossale acume (tra i tanti, ha svolto pure il poco raccomandabile mestiere di critico), in una definizione, non avremmo dubbi: l'Anti-Fazio.
Se l'abatino genovese, perversa sorta di Re Mida al contrario, riesce a banalizzare tutto ciò che sfiora anche solo col pensiero, Timpano risulta invece ficcante, mai fuor di misura, a tratti sorprendente nel trattare una delle materie più incandescenti della nostra storia, il caso Moro. Aldo morto. Tragedia è, infatti, il testo che chiude la trilogia dedicata alla Storia cadaverica d'Italia, acuminata base drammaturgica per una perfomance sibillina, a tratti opulenta, tra riferimenti maliziosi, citazioni culte, nozioni feroci, materia porta al pubblico mai con saccenza, buttata lì in controtempo, rovesciando con scienza indubbia gli stilemi della recitazione convenzionale.
Timpano (come chi scrive) è del 1974. Quando, la mattina del 16 marzo 1978, un commando delle Brigate Rosse assalta la scorta di Aldo Moro, uccidendo cinque agenti (la dinamica dell'azione tuttora presenta aspetti irrisolti) e rapendo l'allora presidente della Democrazia Cristiana, non ha nemmeno quattro anni. Troppo pochi per ricordare bene. Troppi per non averne memoria. Coglie quindi l'occasione, per sporcarsi le mani e, dopo i ritratti generazionali attraverso il ricupero teatrale dei cartoon giapponesi (Ecce Robot, 2008), ispirato ai personaggi dell'autore nipponico Go Nagai (Jeeg Robot, Goldrake, i vari Mazinga), va a ripescare uno degli eventi più trattati, e meno compresi, della nostra storia repubblicana. Lo fa alla sua maniera, con un pot-pourri citazionistico, un labirinto borgesiano in cui attrae lo spettatore, facendosi quasi sottovalutare con quelle spalle da impiegatuccio fantozziano, quella faccia da quadro cubista in celia perenne, quello sguardo filtrato da lenti massicce in cui ci par di ritrovare lacerti di folie rezziana, un umorismo al vetriolo che si fa carne da teatro.
Si dimena, in un costante gioco di slittamenti parafreudiani, ché Moro è la generazione dei padri, o dei nonni, la generazione che le BR volle processare, in un complesso schema di rimandi che fa anche i conti con la proiezione mediatica che il rapimento del presidente della DC ha provocato nei decenni successivi. Timpano si pone da liquidatore di tutto ciò, fa sua, in chiave artistica, estetica (e quindi etica) la materia, la imprime nel sangue vivo delle parole, rifiutando la retorica, la morale, il moralismo, la predica e il pietismo. Sottrazione pura, ma non semplice, né, tantomeno, semplicistica: sottrae sé stesso, anzi tutto, in una profondità umoristica che è metallo prezioso di qualsiasi gioiello artistico. Strappa risate, mai piene, mai liberatorie, mai consacranti un nuovo ordine (pronto a rovesciarsi in vecchio, nuovo paradigma che esigerà difesa e presidio), lasciando prevalere il ghigno terrifico del dubbio, lo sprofondo desolante del niente.
Parole, parole, parole: oltre un'ora e mezza di parole, ma non chiacchiera, per dirla con Pasolini. È un monologo serrato, da vedere e rivedere, questa tragedia annunciata, requiem a priori e posteriori per una storia dall'esito ineluttabile. Monologo tarlato, innervato di citazioni, canzoni, spunti da quel plesso di mondo che dagli anni Settanta ha dilagato nella plastica rovente del decennio successivo, per poi sciogliersi in quella melma senza fine che dai Novanta abbraccia tuttora il nostro presente. Rapido, Timpano ancheggia, saltella, duetta con una piccola auto radiocomandata (un vero giocattolo must per noi del '74), chioccia e s'impenna su tonalità nasali, ma non offre mai una soluzione. E qui sta il maggior merito: non rassicura né indottrina, non s'erge a docere né la butta in vacca col riso, il lavoro di questo autentico artista del monologo è un intarsio di preziosa materia teatrale. Lascia interdetti, sul momento, regala dubbi, non senza strappare sorrisi. Gli applausi, per una volta, ci trovano concordi e sembrano davvero tutti meritati.

Igor Vazzaz, «Giudizio Universale»



Foto di Claudia Papini
Chi lo ha già visto in scena riconosce il suo stile, la sua linea drammaturgica, solo apparentemente sconclusionata, e non può fare a meno di seguirlo con attenzione. Perché è questo che a Timpano riesce sempre: trascinarti dentro continui scarti di direzione, di registro, di tono, di genere spettacolare, mescolando formati anche televisivi o radiofonici dentro una partitura originale che rompe con tutto.
Come tutto il resto: le contraddizioni, i ripensamenti, i voltagabbana, gli insulti a destra, quelli a sinistra, le minacce di metter sotto con la macchina ora i brigatisti ora i politici, è tutto parte di un preciso disegno. È la personale versione parodica di tutto lo scibile che su Aldo Moro e le Brigate Rosse è stato scritto, dichiarato, detto e ridetto su carta di giornale di libro, su internet, alla radio, alla TV dalle varie fonti o presunte tali. Un'invettiva contro chi si è permesso di sfruttare questa storia per produrre fiction, cinema e spettacoli teatrali - dunque anche autoriflessiva.
Disturba, fa ridere, sorprende, riprende, ti parla, ti insulta, invoca pietà, cerca di intenerirti, suggerisce toni seri, si rende impopolare, infastidisce, mima la cronaca svergognandola perché impudica, la risolleva. Produce parole e frasi a raffica, riesce a star fermo immobile per lunghi, interminabili minuti. Sa tenere la scena, Daniele Timpano, e lo fa passando dalla porta più stretta, strisciando attraverso il percorso più ostico, facendosi largo e andando contro la mansuetudine di applausi a comando. E si risolleva dove l'applauso a comando non sale. Regge il silenzio. Riparte dopo un'autocritica, con rinnovato vigore attacca il suo stesso spettacolo e riprende in mano il suo personalissimo caleidoscopio.
Mettendo in scena uno strabordante io vuoto, pronto a vestire i panni di Daniele Timpano stesso, che nel maggio del 1978 aveva solo quattro anni; oppure calzando quelli del figlio di Moro; o magari quelli di un improbabile cronista che visita la scena ancora sanguinolenta del rapimento di via Fani; insomma qualsiasi proiezione sia gettata sull'io, per Timpano è comunque un'occasione per ribaltare e rileggere forme conosciute e standard. Si crea così sul palco un'identità volutamente instabile, mutante, camaleontica e incoerente che come spugna assorbe tutto e il contrario di tutto; al punto da essere imbarazzata e imbarazzante.
Non troviamo quindi uno spettacolo narrativo, né autobiografico, tantomeno storico nel senso comune; non si tratta di un teatro di denuncia civile così come abbiamo imparato a conoscerlo negli ultimi vent'anni. No, Daniele Timpano ci propone la sua personale evacuazione, dopo necessaria digestione, di una marea incontrollata di informazioni in grado di riprodursi quasi all'infinito e tutte rivendicanti autorevolezza, per forma o contenuto. È di questa forma e di questi contenuti che Timpano si fa beffa, li sbriciola e li parcelizza, mescola ciò che può sembrar vero a ciò che può sembrar falso.
Dentro ci stanno frammenti dei discorsi di Moro alle Acli, ci sta Pasolini (citato almeno tre volte - con conseguente autocritica), Sergio Flamigni (edizioni Kaos), Rita Pavone con la sua Pappa al pomodoro, ci sta l'editore Feltrinelli, Montanelli, la classe politica al governo nel 1978, i democristiani, i carcerieri di Moro e la loro versione dei fatti (una stanzetta di tre metri per uno, impossibile dato il buono stato di conservazione in cui si trovava il corpo dopo l'omicidio), il libro di Adriana Faranda (Il volo della farfalla, Rizzoli), un excursus sul logo, la stella a cinque punte, non certo esclusiva delle Br. E molto altro. Tutto accanto a tutto come in un orizzontalizzazione del quadro, contro ogni presunta verità.
In una revisione e superamento del post moderno, masticando qua e la pezzi di racconti, la Storia con la s maiuscola viene restituita facendo a pezzi le tante narrazioni che la producono, come a volerle sconfessare tutte continuando comunque a cercare una traccia credibile. Ora flusso inarrestabile, ora siparietto canoro, ora usando il microfono spento, ora usando il microfono in playback lo spettacolo procede a quadri, finisce continuamente in punti morti, cerca appigli svela il meccanismo e riparte, offrendo un buon numero di nuovi attacchi e alcuni potenziali finali.
Più simile a un "Not I" di Samuel Beckett - dove una bocca è impossibilitata a trattenere e quindi dice, ma non riesce ad articolare bene ciò che vuole dire - che a qualunque altra forma spettacolare, la drammaturgia di Timpano - riconoscibile qui in Aldo morto / tragedia come anni fa già in Ecce robot - strapazza anche questa potenziale immagine. Perché qui c'è una volontà-regia, c'è consapevolezza e forza impegnate in un lavoro di rielaborazione che rifiuta il lineare per sposare la stratificazione del racconto. Intaccando, citando e sporcando ogni forma per farla sua, Timpano include in modo onnivoro nel mescolone citazioni, lettere, canzonette, letture, voci profetiche o presunte tali che dicono e pretendono di fare la storia. Le cita e immediatamente ci si scaglia contro in un atteggiamento iconoclasta.
La storia che ci propone Timpano con Aldo morto / tragedia è quindi una mega-storia, di dimensioni spropositate grande almeno tanto quanto il materiale che su di essa è stato prodotto. Una storia, apparentemente senza direzione, eppure che riesce a raccontare come e forse più di un teatro di narrazione, un presente massacrato da un Twitter, da un forum, da un talk show televisivo con tanto di ospiti cosiddetti illustri. Attenzione, però, quello di Timpano non è collage, non è un assemblaggio casuale è raffinato decoupage: proprio come in quella tecnica, con vinavil e acqua, frammenti fradici di una pasta bianca che qui potremmo riconoscere nelle sue capacità tecnico-interpretative, frammiste alle sue doti di drammaturgo (questo testo è stato finalista al Premio Ubu come Migliore novità italiana o ricerca drammaturgica nel 2012), ricoprono un oggetto con frammenti di immagini, fumetti, colori, articoli di giornale, trasformandolo in qualcosa di poco rassicurante eppure fascinoso, qualcosa che è immediatamente pop.
Chiede continua attenzione. Non permette, neanche per un istante, che gli spettatori lo mollino, mima lui le lungaggini, la noia, offrendo un varco e un attimo come di sollievo, ma poi incalzando prosegue il suo non-racconto affondando dentro tutte le incertezze e insicurezze di chi ha solo sentito dire, di chi di una storia grave e tragica non ha colto l'attimo, non ha vissuto in presa diretta. E ancora si pone inquieto e incerto di fronte a una storia che va molto al di là dell'omicidio di Aldo Moro, una storia che dura vent'anni, quella delle Br, ma che parte anche prima e che forse va rintracciata nei tanti fermenti degli anni '60.
Gioca con il corpo: lo fa piccolo e inadeguato, lo propone minaccioso, violento, lo guida in uno scatto improvviso senza perdere l'equilibrio, lo restituisce in un'altra veste ancora, familiare, forse persino rassicurante. Comincia con "Vabbè, niente d'importante" e così chiude. Stimolante in modo avanguardistico.

Laura Santini, «Mente Locale»

Uno spettacolo come 'Aldo Morto' [...] puó essere solo amato o non capito. Difficile da collocare in un genere ben preciso. Comico, non proprio anche se si ride tanto e non per sdrammatizzare, ma sarebbe troppo banale per un drammaturgo come Daniele Timpano, autore ed unico interprete dello spettacolo. Satirico? Anche. Documentaristico? Forse. Di certo é irriverente, beffardo, cinico, per i piú conformisti quasi sacrilego. 'Aldo Morto', ma Timpano vuole ricordare 'Aldo vivo'. Sul protagonista della vicenda sappiamo ormai tutto: grande statista, definito l'uomo del compromesso storico, capo del governo per cinque legislazioni.
Sequestrato dalle brigate rosse il 16 marzo del 1978 e ritrovato cadavere il 9 maggio dello stesso anno. Da allora tanto, forse troppo, é stato detto. Da piú di trent'anni pellicole, foto in bianco e nero e vagonate di libri ci raccontano gli anni di piombo con tutti i suoi protagonisti, vittime e carnefici. Giornalisti come Minoli, registi come Bellocchio, gli stessi sequestratori hanno scritto pagine e pagine di libri (facendo la fortuna di grandi case editrici simbolo di quel capitalismo contro il nome del quale hanno ucciso). Timpano é solo in scena ma accompagnato da tanti personaggi di una tragedia. [...] Quella di Timpano é un'interessante drammaturgia 'schizofrenica', ricca di spunti e di pensieri lancianti e rimessi alla riflessione del pubblico. Ma nello stesso tempo é una scrittura decisa e senza mezzi termini, priva di qualsiasi forma di censura. Lo spettacolo, che sta girando l'Italia [...], ha tutte le premesse per diventare uno spettacolo 'rumoroso'.

Maria Antonietta Parrella «Foggia & Foggia»



La necessità di spogliare l’evento Moro dal suo alone mediatico porta Timpano a scegliere il teatro e, in particolare, il monologo [...] Più che la morte di Moro, celebrata e cristallizzata persino dalla fiction (e si cita il film di Ferrara con Gian Maria Volonté), il regista-attore ripercorre piuttosto ciò che è rimasto in vita: mira a una prospettiva diversa, fatta di sensazioni e umori che al caso Moro hanno fatto eco, immedesimandosi ora nel figlio di Moro, ora negli ex brigatisti [...] La scenografia è spoglia, neutrale e permette l’ingresso sulla scena solo alle icone della storia (una lettera scritta da Moro alla moglie, il modellino della Renault 4, la stella a cinque punte e un discorso [...] del Presidente). La scelta di interpretare più personaggi vicini a Moro [...] sembra voler allargare il cerchio delle riflessioni aprendo a una prospettiva più ampia [...] La struttura dello spettacolo, così come la recitazione [...] risultano concitate e ricche di contrasti: dati precisi e reportage dei fatti si mischiano a sensazioni emotive e ipotesi sentimentali. L’amara ironia, i movimenti dinoccolati e stravaganti, la dialettica nervosa e intrisa di rimandi a icone degli anni di piombo confluiscono in una sorta di dadaismo teatrale, in cui non mancano i nessi surrealistici. [...] D’altronde, la contraddizione e la molteplicità di posizioni è centrale su tutti i livelli. Contraddittorio è l’ex-brigatista Curcio [...] Contraddittorio è il sentimento di pietà per un uomo come Moro contrapposto a quella rabbia feroce nei confronti di colui che ha detenuto il potere all’interno di un sistema succube e corrotto [...] Contraddittorio, infine, appare il bisogno di indagine che muove l’intento dello spettacolo, ma che termina invece con la sensazione di non poter giungere a un’oggettività univoca. Il merito di Timpano [...] va dunque ricercato nella volontà di opporsi alla forza anestetizzante della storia, sterilizzata dalla fiction e dai media. 

Mara Verena Leonardini, «Persinsala» 


Daniele Timpano [...] ha messo in scena uno spettacolo rivoluzionario [...] dalle sue parole si intuisce certo un malessere nel vivere la Società odierna, nell'accettare il potere di entrambe le fazioni politiche, una sorta di impossibilità ad agire per modificare la situazione attuale che si è creata e la sua unica probabile risposta, forse la migliore, è quella di raccontare una storia, di fare spettacolo con le immagini e le parole cercando di prendere una posizione e facendo divertire, pensare, ricordare e non dimenticare, con ironia preparazione e il giusto talento.  

Giovanni Levis, «A tutta fiera»

[...] Si può dire che l’obiettivo dell’autore sia proprio quello di smantellare, in tutte le sue sfaccettature, il complesso sistema retorico che ha accompagnato i numerosi tentativi di costruzione della realtà storica da quarant’anni a questa parte. Timpano sembra abbia elaborato un lungo studio semiotico che porta in scena utilizzando, con un ritmo crescente e schizofrenico, tutto il simbolismo, le icone e le categorizzazioni di cui è pieno il ventennio rivoluzionario, arrivando, con una spiccata ironia, e con l’utilizzo di numerosi riferimenti al boom culturale di quegli anni (da Pasolini a Lolli fino a Celentano) a decostruire e dissacrare insieme, come una sorta di blob televisivo, un patchwork sensoriale, l’icona di cui si è servito il mainstream politico e mediatico del tempo, con cui ancora oggi ci ritroviamo, nostro malgrado, a fare i conti. Partendo da quel punto di vista in cui lo “Stato” ha avuto la meglio sui sovversivi venendo meno, però, alle libertà democratiche, Timpano comincia dall’indossare i panni del figlio di Moro, passando per il cronista che racconta ai telespettatori l’accaduto, fino a interpretare satiricamente la brigatista Adriana Falandra che fa la promozione del suo libro, ma senza tralasciare i punti oscuri del contesto storico come l’utilizzo della tortura nelle carceri o il confronto della figura dell’operaio di oggi con quello di allora “che ancora ti capitava di incontrare per strada”. Sin dalle prime battute ci si rende conto che in fondo di Aldo morto non importa niente a nessuno, ne tantomeno a Daniele Timpano, il cui intento è quello di smascherare in un’ora e mezza tutte le contraddizioni di un Italia soffocata da un’incessante omologazione mediatica, ormai prevedibile e sempre uguale a se stessa.

Bibiana Di Francia, «Scena Contemporanee»

 
C’è un paradosso dalla "profondità" vertiginosa al centro di “Aldo Morto” [...] il fatto che del caso Moro (come in tante altre pagine di storia nazionale) si sappia ormai "tutto" fuorché la verità dei fatti. Fin dai tempi del suo “Dux in scatola” , del 2005, contestato tanto dai nostalgici di Destra quanto di Sinistra, Timpano si è specializzato in un anomalo, personalissimo, teatro di narrazione storica basato sull’intuizione che molti fatti delle nostre vicende italiche, nel tempo, sono state come "filtrate" da uno sguardo mediatico che le ha trasformate in qualcosa di simile a morbose epopee. Il risultato è che la nostra memoria si lega a dettagli privati dei protagonisti, immagini e ritratti, ma non alla "sostanza" dei fatti, che rimane ben nascosta dietro la suggestione dell’idea di “indagare” il passato attraverso la tv, il cinema o il teatro stesso. Era stato così per il Risorgimento, riletto attraverso la sua trasformazione sarcastica in un "contenitore" di tormentoni pop (nella fusione surreale tra le gambe di Anita Garibaldi e quelle della cantante pop Britney Spears), e per il Fascismo, con il racconto in chiave espressionista del trafugamento del cadavere di Mussolini e il suo quasi decennale viaggio a zig zag lungo tutto il paese, seguito in modo quasi feticistico dai nostalgici del regime ma anche dalla stampa popolare. Con “Aldo Morto” [...] Timpano porta la sua scommessa teatrale a un livello molto più rischioso e sottile, che va oltre il facile ricorso all’umorismo moralistico; infatti anche lo sguardo sugli ex brigatisti che si sono trasformati nel tempo in editori o scrittori di successo fa parte di un discorso in cui al livore si sostituisce l’impossibilità consapevole di conoscere e descrivere veramente ciò che si sta mettendo in scena. Questo senso di impotenza è ben sintetizzato dalle 2 immagini "forti" che riassumono lo spettacolo: la riproduzione telecomandata della Renault 4 in cui fu trovato il corpo senza vita di Moro e la foto-elaborazione delle fotografie di Moro ripreso durante la prigionia. Timpano sostituisce il suo volto a quello di Moro e ne riproduce l’espressione indecifrabile del viso non per indagare morbosamente su cosa si nasconda dietro di essa, ma per sottolineare come il dramma dello statista sia diventato “di tutti”, quasi sottratto allo stesso Moro e alla sua famiglia, trasformandolo in una materia plasmabile e astratta come un fotomontaggio o un video digitale. Il paradosso che muove le lettere di Aldo Moro dalla prigionia è lo stesso che Timpano porta in scena. Da un lato c’è Aldo Moro, che sente la necessità di scegliere tra il grido di aiuto e la rassegnazione al corso degli eventi, tra la sua dimensione di politico e quella di uomo sottratto ai suoi familiari. Alla fine egli finisce per scegliere quest’ultima e dichiara, in retrospettiva, il suo tentativo politico inutile di fronte a una società italiana priva di etica e coscienza. Dall’altra c’è Timpano, che rappresenta attraverso il teatro questa stessa incapacità dell’Italia di gestire con equilibrio la sfera pubblica e quella privata, con il senso di vacuità esistenziale che ne deriva. La sovrapposizione di voci, immagini, suoni e ruoli narrativi che caratterizza lo spettacolo è dunque una parafrasi caustica delle periodiche “rivelazioni” e delle diverse versioni uscite da processi, interviste televisive e autobiografie reticenti di ex BR, riproducendo con spietato pessimismo un passato che ogni giorno di più si trasforma in uno spettrale thriller e si allontana dalla realtà.

Stefano Aicardi, «Milano Web»

L’autore-attore è nato negli anni ’70, esattamente nel 1974, e di quel periodo non ha, naturalmente, alcun ricordo o memoria personale ma ha voluto, partendo dalla vicenda del tragico sequestro di Aldo Moro, [...] confrontarsi con l’impatto che quell’evento ha avuto sull’immaginario collettivo scrivendo e interpretando questo monologo che dura 105 minuti ininterrotti senza alcuna pausa né per gli spettatori né, soprattutto, per lui per riprendere fiato o bere un po’ d’acqua, un vero tour de force recitativo che ha affascinato e coinvolto il pubblico presente, nonostante il tema difficile e doloroso. [...] Davvero bravissimo Daniele Timpano”.

Daniela Domenici, «Italianotizie.it»


foto di Claudia Papini
Con eloquio a volte di divertente, incline all'umorismo nero, altre volte malinconico, sempre rapido [...] anche nei movimenti del corpo, offre una pièce tagliente, priva di pietismi e di qualsiasi appiglio consolatorio, ricca di citazioni, simboli (la foto del politico pubblicata da Repubblica che annuncia "Ore contate per Moro", il modellino di R4 rossa che teleguidato si muove sul palco, l'inquietante stella a cinque punte), e rimandi talvolta anche musicali: Rita Pavone, Claudio Lolli, i Bee Gees, Eros Ramazzotti, Francesco Baccini, Gianfranco Manfredi, Mia Martini: sua, nel finale, la splendida "Lacrime di marzo".
L'affabulatore capitolino passa da un personaggio all'altro. Diventa il figlio dello statista della DC [...] Si trasforma in un giornalista cinico e vanitoso [...] indossa i panni dell'irriducibile Renato Curcio, e quelli di una Adriana Faranda intenta a pubblicizzare il suo nuovo libro, pubblicato per una casa editrice che un tempo avrebbe bollato come capitalista [...] Paragona la figura dell'operaio di allora a quella di oggi [...] Ricorda le occupazioni nelle scuole, nelle università, le manifestazioni in piazza, il movimento femminista, Che Guevara, Pasolini e molto altro ancora. Spettacolo intenso e applaudito.

Carlo Argiolas, «L'Unione Sarda»

foto di Claudia Papini
"Aldo morto", scritto, diretto e interpretato da Daniele Timpano, un testo che ha avuto una grande attenzione da parte del pubblico e della critica, arrivando ad un passo dal prestigioso Premio Ubu. Una versione personalissima della storia dello statista rapito dalla Brigate Rosse, storia che in apertura Timpano liquida in trenta secondi, chiarendo invece da subito quale sarà la sua lettura dei fatti. Meglio una rilettura che deve passare attraverso il corpo dell'attore, la sua voce, il suo compulsare freneticamente, non pausare, accelerare, mischiare tutto: realtà, fatti veri e ricostruzione soggettiva, quasi cinematografica delle pagine della storia.
Si chiama tradimento, reinvenzione, sconcerto, Aldo Moro per Timpano è come un mito moderno, un'icona, alla Marylin, per intenderci, destinato a non potere invecchiare, a rimanere cristallizzato, legato per sempre al suo destino, al suo nascondiglio, alla sua Renault rossa.

 Enrico Pau, «La Nuova Sardegna»



[...] Il nuovo lavoro di Daniele Timpano [...] sa parlare, nel suo linguaggio scenico schizoide, della forza eversiva che può sollevarsi in una comunità a partire dal chiuso delle pareti di un teatro. [...] In occasione dell’anteprima di Aldo morto. Tragedia, ieri sera all’India c’era il tutto esaurito. Un pubblico attentissimo e affatto rumoroso ha seguito instancabilmente per quasi due ore Timpano in uno spettacolo di sorprendenti trasformazioni, variazioni e divagazioni sul tema Aldo Moro e anni di piombo. [...] In scena solo un attore trasformista, che è di volta in volta conferenziere, figlio, brigatista, imitatore, mimo, confidente, showman (e show-woman) [...] Il repertorio musicale (usato o anche solo citato) è di qualità, foltissimo e vagamente nostalgico; i pezzi anni Settanta, che a buon diritto Timpano sciorìna [...] contribuiscono fortemente all’impronta generale e corredano il suo stile personalissimo. [...] Il dotato e intelligente autore-attore ha scelto un argomento avvolto da un’aura quasi intoccabile – che finora forse solo il caro estinto Gaber aveva avuto il coraggio di violare – e lo fa un po’ col pretesto di trasformare una tragedia greca in coriandoli di plastica: modo infallibile per ravvivare le coscienze dei presenti stinti, estinti. [...]

Il fondamento di partenza è comunque irrinunciabile: che se ne parli, che si vivifichi un tema soggetto a ipostatizzazioni e incasellamenti o a semplice oblìo; si porti dunque in scena quello che nella tragedia greca è tralasciato, celato da un pannello. [...] Anche la comparsa di una piccola Renault 4 rossa telecomandata è un escamotage divertente. [...] Già, in questa tragedia contemporanea (o quasi) perché farsi mancare il deus ex machina?

Cristina Carrisi, «Teatri di cartapesta» 



C'era una volta la paratassi. Soggetto, verbo, complemento. Era il modo di scrivere che ti insegnavano alle scuole di giornalismo. Quello che avrebbe permesso a te di raccontare le cose in modo incisivo, e al lettore di capire immediatamente i fatti, sia che fosse comodamente seduto nel suo salotto di casa, si che si trovasse al bar, a ingurgitare un caffé prima di entrare in ufficio. C'era una volta, ma adesso non c'è più. O almeno si vede poco. In particolare, non si vede e non si sente quando scrive Daniele Timpano, che è un torrente in piena di fatti, citazioni - colte e pop, o forse popolarmente colte - e punti di vista. Aldo Moro è stato un politico, un padre di famiglia, un uomo di Stato, un democristiano. Ma anche una vittima, un recluso, una foto su un giornale. E, naturalmente, un cadavere in una R4 rossa. Aldo Moro è una delle icone - ci piaccia o no - di una stagione dell'Italia ancora troppo vicina per poterne parlare liberamente. La stagione del comunismo, del randello, del piombo. Ma anche degli ideali, dei sogni, della libertà. Timpano, con semplicità di mezzi e ricchezza di fantasia, smuove l'acqua intorno all'icona, per cercare di vedere cosa c'è intorno ad essa. Per cercare di riportare alla luce quello che davvero sono stati quegli anni. 

Alessandro Mauri, «Teatroteatro.it»

foto di Costanza Maremmi
[...] Timpano decide di vedere cosa c’è dietro la nota polaroid dello statista con “La Repubblica” in mano, ancora dentro la “prigione del popolo”, raccontando un Aldo Moro vivo, un padre di famiglia un po’ noioso ma buono, un politico, un uomo colto. Eppure Moro è stato raccontanto in tutte le salse da chiunque. Ma uno, tra quelli che lo hanno raccontato, almeno uno lo conosceva? Minoli, Vespa, Augias? No? E allora cosa si è potuto mai raccontare di quest’uomo? Si è fatto probabilmente sciacallaggio giornalistico da quattro soldi, come mostra Timpano nella splendida e divertente sequenza del giornalista sul luogo, ancora caldo, del sequestro in via Fani: il tipico giornal(ett)ismo che racconta in diretta solo banalità, calpestando prove, cadaveri, carabinieri. Poi c’è il racconto dell’ ideale comunista così diffuso in quegli anni: la perla sta nel raccontarlo in maniera semi-ironica tramite le canzoni “vicine” al movimento, come quelle del “profeta Claudio Lolli”. [...] Ironizzando qui e lì anche sulla malata tendenza italiana al complottismo, l’attore tratta anche un tema fondamentale che in molti si dimenticano quando si parla, ad esempio, anche di Moro: la morte. Come si fa a raccontare la morte? Una cosa così naturale eppure spaventosa, così segreta eppure alcune volte (troppe volte) spiattellata ovunque come una pubblicità per scarpe: lo stacco di luci, di tono, nel monolgo, rende la sequenza molto dolce e lirica, come se Daniele Timpano fosse riuscito a pescare tra due dita una goccia d’acqua tra un mare in tempesta. Lo spettacolo, senza di lui, non sarebbe la stessa cosa perchè, per qualche strana alchimia, solo lui riuscirebbe a parlare così tanto e per così tanto tempo senza annoiare e scadere in tempi morti. “Aldo Morto” è un fiume in piena che si rovescia sulla tua sedia investendoti: rimani per poco meno di due ore seduto a guardare, quasi senza che ti possa accorgere del tempo. [...] Dallo spettacolo si esce come una notte passata a chiacchierare con un amico, quando l’alcol elasticizza la lingua: senti di aver parlato di tante cose avendo dato a tutto il giusto peso, con seria ironia, dicendo qualcosa che qualcun’altro non ha il coraggio di dire. E forse non ha neanche lo stile per farlo.

Christian Di Furia «LINK Kollettivo Foggia»

"Uno spettacolo non-spettacolo, il monologo di Daniele Timpano che la sera della prima [...] ha letteralmente riempito il Teatro Palladium. Monologo a più voci dell’attore che man mano incarnerà, ironicamente e non, sempre più personaggi, fino ad affermare implicitamente l’idea di una relatività degli avvenimenti, dei punti di vista, delle ideologie, dell'etica, tanto inestricabile da mettere in discussione l’effettiva possibile sussistenza di questi concetti [...] forse l' unica certezza, dopo un'ora e mezza senza intervallo, resterà proprio quella di non poter affermare né tanto meno credere a nulla con sicurezza [...] Un serioso completo bianco e nero stenterà a contenere la natura eversiva dell’autore, sfuggendo alle linee predefinite dell’abito, mentre il fremente corpo attoriale e registico di Daniele Timpano movimenterà pezzi di stoffa ribelli che tratterranno a stento il fuoco che animerà i suoi argomenti. Un’energia sovversiva che riesce a farsi arte nel gusto di una fine subordinazione ad una parola ed organizzazione drammaturgica sempre ben dosata ma non per questo prevedibile [...] Teatro politico che non pretende di fare politica, e anzi, nel suo mettere in luce i punti deboli, il ridicolo di ogni limitata ideologia imporrà una spontanea presa di coscienza ad ogni singola cellula di pubblico della propria diversità prima ancora umana che politica, innata causa di inevitabile contraddizione. [...] Un inno alla vacuità del credo assoluto, alla statica, ottusa e conclusiva definizione delle cose che [...] palesa il ridicolo presente in ogni tipo di convinta posizione (rivoluzionaria o conservatrice, trasgressiva o moraleggiante, atea o cristiana, comunista o socialdemocratica, sottomessa od anarchica) [...] L’ estremizzazione dei toni giocati insieme a quella dei mezzi adoprati (minimali ma di forte impatto espressivo) dà vita ad un’eccentrica autoridicolizzazione che [...] offre allo spettatore un modo diversamente stimolante di rivedere o vedere per la prima volta le cose [...] quello di Timpano è un urlo che, in qualsiasi modo possa venir recepito, non può non scuotere in noi un interrogativo che a sua volta si spezzerà in così tanti altri da rompere l’ idea che i tanto ben impacchettati libri tendono a fissare su di noi, come cultura o semplicemente curiosità personale e poi come ricordo, morto, per l’ appunto, dopo esser stato digerito [...] un’ironia che attraverso il sé del frenetico (e pur sempre regolato, nella particolarissima presenza) corpo attoriale esploderà su tutti i fronti. È la liberatoria condivisione di alcuni dei più nascosti eppur così comuni paradossi di cui la realtà, quella lontana dal palcoscenico, continua a vestirsi. È una schietta confessione che però non si mostra mai del tutto, una riflessione sull’ attendibilità del “reale” trasmessoci che si fa esempio stesso di questo processo, negando in se stesso il principio stesso di assoluta veridicità. [...] ma che sicuramente attraverso la spregiudicata commistione di forme, nel suo aspetto apparentemente privo di regole chiuse, si fa molto più vicino alla vita vera, quella che l’ artista coinvolge oltrepassando la quarta parete, al contrario della vitrea ed omologata lastra televisiva dietro la quale tutto appare così “normale”, tanto da aver convinto una società, quasi nella sua interezza, a riconoscerne entro, inconsciamente o meno, il proprio paradigma. È, ancora una volta, la follia scenica che sfida la presunta “normalità”, artificio ben più follemente architettato dietro maschere mediatiche che disegnano una inesistente, ben più surreale omologazione. Ed invece vivere significa trovarsi davanti alla diversità, [...] vivere è assistere proprio a ciò che vien fuori da questo spettacolo-non spettacolo che, assai più spettacolarmente, negandoci un’ utopica, univoca, conclusa, visione “corretta”, “normale”, “giusta” delle cose, non potrà non aprircene di nuove.”
Carmen Albanese, «Saltinaria.it»


foto di Claudia Papini
"Per Daniele Timpano «Aldo è morto, poveraccio». Ai tempi di via Fani lui non aveva che quattro anni e la tragedia l’ha scoperta solo una decina di anni dopo, grazie al film di Giuseppe Ferrara. Il suo Moro ha la faccia di Gian Maria Volonté e la voce delle registrazioni dell’epoca. È un personaggio della storia, che passa attraverso il tubo catodico e diventa inevitabilmente un eroe postumo, con tutte le conseguenze del caso. [...] Piuttosto che cedere alla retorica o ad una facile agiografia, Timpano sceglie una prospettiva straniata che alterna il punto di vista di chi Aldo lo ha conosciuto morto e quello di chi lo ha avuto vicino da vivo [...] La storia che porta in scena è volutamente scardinata e fatta di una complessità che alterna momenti di riflessione seria a lampi comici, frammenti che hanno il sapore di una testimonianza a inserti grotteschi e sarcastici [...] è su questa linea che lo spettacolo insiste, mentre non perde mai la profondità dell’impegno civile. La ricostruzione non sceglie la strada della filologia, ma segue il filo di una nostalgia di chi quegli anni li vive attraverso le canzoni, gli oggetti, la televisione e le sue icone. Ma quella di Timpano è una tragedia: lo dichiara il titolo e lo sottolinea lo stesso personaggio, quando avverte il pubblico che sta per assistere ad “una storia seria” che “finisce male, muore e basta”. “Aldo è morto senza il mio conforto” dice Timpano quasi in uno slogan in rima, e intanto dà voce e corpo al figlio dello statista, che porta in scena un ritratto intimo e non ufficiale [...] È questo il personaggio che si va a contrapporre all’Aldo morto della televisione e del cinema, come a voler compensare trent’anni di interpretazioni, spesso troppo arroganti."

Valeria Merola, «Dramma.it»


foto di Claudia Papini
"[...] «Niente di importante. Cose che capitavano negli anni ’70. Bisognava fare la rivoluzione. Chi? Brigate Rosse. Era il 9 maggio del 1978. Non avevo ancora quattro anni», ci avverte l’autore-attore nato nel 1974, un bambino all’epoca dei fatti così come al tempo dell’invasione dei cartoni animati giapponesi di cui ci aveva parlato in “Ecce Robot!”. Se è di nuovo un ‘cadavere ingombrante’ al centro della ricerca storica e drammaturgica di Timpano e se lo scopo stavolta è quello di intrecciare e far frizionare la verità minima e privata dei ricordi personali di un uomo - che fu vivo, appunto, prima di morire – con l’immagine indelebile, fissa e immobile della sua morte, nonché le parole degli ex terroristi e degli ex parlamentari di allora con il loro presente storico e col presente dell’attuale classe politica italiana, il vestito prescelto per la tra-dizione sarà quello mai demodé della morte. Una morte, quella di Moro, da disseppellire attraverso le voci di giornalisti come Peppe d’Avanzo e da sbadati reporter sul luogo del sequestro o attraverso i ricordi del figlio del politico, ma anche da dispiegare via via sull’onda di cantautori ‘impegnati’ o di canzonette non meno incisive. Una morte soprattutto da incarnare e da indossare, come fa il performer romano di cui ci rimane la foto formato santino, dove il ricalco sulla sagoma di Moro ribatte all’ovvietà del riconoscimento con l’evidenza della sua negazione. La molteplicità di toni, di testimonianze, di sembianze passate e di trasformazioni post-combattenti (definitiva nel Mazinga carbonaro di Renato Curcio «nato ai bordi di periferia») non dà una lettura ideologica della vicenda ma anzi ne conserva tutta l’umbratilità – perché «se non è tutto oro quello che luccica, non è tutto piombo quello che non luccica» - almeno finché la morte non assumerà le sembianze telecomandate e addomesticate di una Renault 4 rossa, targata Roma N57686."

Ines Baraldi, «Recensito.net»


foto di Andrea Chesi
"Molto forte, molto intensa, molto personale e, forse anche irriguardosa e geniale la lettura che Daniele Timpano, avanguardista di terzo millennio [...] compie per ricostruire gli anni di piombo e l’uccisione di Aldo Moro. È difficile definire il teatro di Timpano… lui è un ricercatore dei momenti bui delle coscienze, evidenziando le cose che il tempo non ha ancora risolto, ponendo in luce quei nodi di cui non si è ancora avuto il coraggio di parlare come nel caso della morte di Aldo Moro. Timpano dà corpo alle meschinità e alle contraddizioni tentando, forse, di dare pace ad un assassinio, quello dello statista, quello di un uomo scomodo, come scomodo è il vero motivo di ciò che è accaduto. Il modo di fare teatro di Daniele Timpano non ha connotazioni politiche, non è un teatro di denuncia né di informazione ma ha un aspetto informale, arguto, aguzzo e pieno di punti di vista diversi che ne allargano le proporzioni e la comprensione. La storia di Moro è letta ed analizzata seguendo le orme dei giornalisti di carta stampata e video, attraverso le loro smorfie, il loro sguardo, il non detto e il non compreso; è approfondita attraverso i libri [...] dei brigatisti dell’epoca, volti più al guadagno che alla verità. Timpano alterna barzellette deprecabili a canzoni, figlie di un delirio dell’epoca, legge Renato Curcio mascherandosi da eroe d’acciaio e poi, con finto cinismo, mette in scena una piccola automobile rossa, una Renault 4, che sveglia e simboleggia il ricordo della morte di Moro. Vedere Aldo Morto è comunque emozionante, sicuramente non semplice da decodificare, specialmente (e qua sta forse la vera anima del percorso) quando Timpano mette in primo piano tutti i nostri cattivi pensieri tramutandoli nei “suoi cattivi pensieri”, pensieri sui vari responsabili, dagli autori materiali ai potenziali mandanti, dallo Stato a coloro che ne erano vittime, tutti pensieri che nessuno ammetterebbe mai ma che tutti, in qualche modo, hanno da sempre manifestato.”

Umberto Flauto «Lapilli.eu»"


[...] Daniele Timpano porta in scena la sua personale interpretazione dei fatti, visti con gli occhi di chi quegli anni non se li è vissuti ma di cui sente il peso. Non interessa la verità, non se ne verrebbe a capo. L'Italia è capace di nascondere ciò che non deve essere saputo, è la migliore nel condurre all'oblio i grandi scandali politici che l'hanno contraddistinta. [...] E allora Aldo Morto cos'è, la ricostruzione storica dei fatti o l'analisi sociale di oggi? Perché, di fatto, Daniele Timpano porta in scena il sentimento di amara contraddizione che sentiamo oggi, la contraddizione di vivere una condizione incerta alla quale non sappiamo rispondere con una decisa reazione. In Aldo morto c'è un po' tutto, c'è Aldo uomo, Aldo vivo, c'è un figlio che piange con tenera ingenuità il padre morto, toltogli per ragioni di stato, ci sono i brigatisti, che nei loro comunicati rivendicano la necessaria urgenza di contrastare il monopolio dei mercati, reale oppressore del proletariato, a quei tempi ancora esistente. Ci siamo noi che viviamo e conosciamo e impariamo grazie a Internet, il che però il più delle volte rende tutto più superficiale. C'è la televisione, sciacallo mediatico che, in nome della verità più accattivante, mostra le immagini più cruente. C'è lo stato italiano, le cui colpe restano impunite, i cui misteri restano insvelati, uno stato verso cui dovremmo provare rabbia e ribrezzo. [...] C'è di tutto e di più [...] Gli anni '70 ci passano davanti senza neanche accorgercene. Uno spettacolo che [...] prende a pretesto uno dei momenti di più alto fervore politico in Italia, anni di lotte e rivendicazioni di cui oggi non si scorge neanche l'ombra, per creare un paragone antitetico con la situazione contemporanea. Sembra uno sfogo quello di Daniele Timpano, un disilluso in scena. Un riso amaro, un po' cinico e un po' sarcastico. Una serie di critiche velate fatte con sagace ironia che rende tutto più fruibile e leggero. Un monologo [...] dai toni cabarettistici, la cui forza risiede nella capacità di affrontare tematiche importanti come la vita, la morte, la condizione umana contemporanea."

Sara Benvenuto «MP news» 

[...] Timpano prende spunto dal dramma sociale del rapimento Moro e del ritrovamento del cadavere il 9 maggio 1978 e ne ricostruisce i passaggi attraverso lo sguardo di chi, troppo piccolo per avere ricordi di prima mano, si affida alla memoria sociale cioè ai media [...] e alla loro riflessività.
E proprio perché i media costruiscono l’informazione attraverso l’osservazione di osservazioni e in base ai propri criteri selettivi, così il modo con cui Timpano ci restituisce la sua può essere visto come la sintesi di un essere pensante – e quindi produttore autonomo di informazioni – di una serie di immagini e discorsi che nel tempo si sono prodotti intorno a quegli avvenimenti.
Dai documentari a tesi, alle inchieste di Minoli, al film di Bellocchio, passando per Renato Curcio e Adriana Faranda fino alle canzoni di Claudio Lolli, evocando i luoghi, Via Fani e via Gaetani ad esempio, e le cose, la Renault 4 rossa – che appare in scena come macchinina radiocomandata – lo spaccato che viene presentato mette in evidenza le contraddizioni e i lati oscuri di una politica che ha fatto certe scelte sostenuta da una certa stampa [...] Il lavoro sui materiali [...] basato su un lavoro di approfondimento notevole, compone una storiografia complessa per fonti – dai testi storici, biografici più o meno parziali, alle canzoni, i film, la tv, ecc. – e per temi che tende a rivolgersi non tanto al passato ma all’oggi e al presente che abitiamo. Lo spettacolo è costruito per “quadri” e personaggi interpretati da Timpano che entra ed esce dalle parti interpretate e dalle prospettive di osservazione che incarnano, a cominciare dal figlio di Moro, senza scordare mai la forma di uno spettacolo assolutamente teatrale. E ci riesce perché oscillando sempre sulla differenza fra vissuto e rappresentato si pone dichiaratamente fuori dal teatro di narrazione o civile senza avere la pretesa di spiegare le cose “oggettivamente” ma di fornirne un punto di vista, il suo, e una traccia buona per pensare. [...] Un teatro saggistico e politico, refrattario alle logiche dell’industria culturale.

Laura Gemini, «L'incertezza creativa»

“[...] Lo spettacolo Aldo morto ci fa conoscere un interprete padrone del palcoscenico e geniale drammaturgo. Egli si confronta con l’impatto che il tragico sequestro di Aldo Moro, trauma epocale che ha segnato la storia della nostra Repubblica, ha avuto nell’immaginario collettivo, senza cadere nella retorica. Timpano utilizza una prospettiva straniata, cercando nelle zone buie della coscienza dello spettatore e portando allo scoperto i nodi irrisolti, le contraddizioni e le cattiverie. È un lutto collettivo, segnato da cose non dette, forse da un senso di colpevolezza.
La storia che porta in scena, volutamente scardinata, è raccontata tramite gli sguardi di giornalisti inadeguati, di commentatori fuori luogo, di brigatisti oggi diventati scrittori di best seller. Non è vera e propria satira, perché non perde mai la profondità dell’impegno civile. [...] Quella di Timpano è una tragedia: come ci suggerisce il titolo e lo ribadisce il personaggio quando avvisa il pubblico che sta per assistere a “una storia seria” che “finisce male, muore e basta”. [...] Il tragico emerge dallo scontro tra il vivo e il morto, tra il padre e lo statista , tra l’emisfero familiare e quello ufficiale. Simbolo di questa tragedia, che rappresenta il punto più profondo dello spettacolo, è la messa in scena della prigionia. È qui che l’autore insinua il dubbio sulle verità processuali seguite da anni di inchieste. Al termine dello spettacolo, l’interprete incarna Moro sequestrato sotto una stella a cinque punte fluorescente, identificandosi in un icona dell’Italia, un paese che non ha imparato a guardare dietro le proprie tragedie.”

Michele Bramo, «Start Up»


foto di Andrea Chesi
"Un monologo, quello di Timpano, che ha come perno il sequestro di Aldo Moro ma su cui gravita un immaginario collettivo più ampio. Non ha la pretesa di essere una ricostruzione dei fatti accaduti tra il sequestro in via Fani e il ritrovamento del cadavere dell’onorevole democristiano nella Renault 4 – ammettendo prima di tutto di essere stato uno spettatore di soli quatto anni. La bravura drammaturgica sta nel mettere a nudo le conseguenze e le ipocrisie che causate da quella morte. L'analisi portata avanti, tra cambi di prospettiva e punti di vista, abbraccia non solo la generazione che ha assistito in diretta ai fatti, ma anche alle generazioni che ne hanno subito le indirettamente le conseguenze. La sua analisi colpisce lo spettatore attraverso una messinscena perturbante e, allo stesso tempo, ironica e piena di riferimenti significativi alla storia italiana dagli anni ’70 ad oggi.
Non c’è retorica in questo monologo. L’umorismo di Timpano – che per certi aspetti può risultare crudo – non sminuisce minimamente la figura di Moro, anzi restituisce una visione più umana, più intima (sia per chi era presente e chi no), e meno documentaristica. Da questo spettacolo viene una metafora sulla morte e del rapporto con essa, tra l’intimo e il mediatico. Consigliato vivamente."

Napoleone Zavatto, «Teatrionline.com»
 
foto di Claudia Papini
"Daniele Timpano è solo sul palco, come sempre: è interprete e regista di questo Aldo Morto andato in scena al Palladium e di cui è ha firmato anche la drammaturgia. Una drammaturgia matura e solida, nonostante l’impostazione frammentaria e la sovrapposizione dei piani narrativi, delle voci, dei punti di vista.
Aldo Moro e la sua tragica storia sono al centro dello spettacolo, ma tutt’intorno gravitano digressioni, riflessioni, citazioni colte e popolari. Tutt’intorno c’è un contesto che non è solo storico, ma anche personale, perché Timpano non vuole raccontare la verità dei fatti: ai fatti certi (o dati per certi) somma quelli soggettivi, la sua percezione dei fatti. In questo modo Aldo Morto si tira fuori dal teatro di narrazione. Quella di Timpano è una prova d’attore (brillante) che si serve a pretesto di un evento storico relativamente lontano nel tempo, e racconta il presente più del passato. Una condizione personale (probabilmente condivisa da una generazione, la sua, la nostra), lo spaesamento, l’impossibilità a comprendere i fatti, la politica.
Timpano interpreta il ruolo di se stesso-narratore, del figlio immaginario di Aldo Moro, dei brigatisti Renato Curcio e Adriana Faranda, di un giornalista che parla in diretta da via Fani il 16 marzo 1978. Ne fa parodia, irride le mille narrazioni – seriose, tragiche, servili, fittizie – che sono state fatte sul caso Moro. Racconta, ricordando quello che tutti sappiamo, poco, attraverso le parole originali della stampa dell’epoca, dei comunicati dei terroristi, degli aneddoti raccontati dalla vera figlia di Aldo Moro, Agnese, nel suo libro.
Le fonti sono originali eppure a Timpano la verità non interessa. Perché quella verità non la sa nessuno, tranne chi nella stanza-prigione di tre metri per tre c’era. [...] Come ogni giovane artista Timpano è alla ricerca del proprio stile, cerca di raggiungere consapevolezza e padronanza dei propri mezzi, e Aldo morto dimostra che la sua ricerca procede nella direzione giusta: la sua tecnica è affinata, non solo sul piano drammaturgico, ma anche su quello attoriale. Timpano è riuscito ad asciugare la recitazione pur mantenendola così caratteristica. L’andatura dinoccolata e l’irrefrenabile impulso a muoversi anche quando è fermo, poi, in Aldo morto assumono un significato drammaturgico, incarnano lo smarrimento, il nostro essere in balia non tanto dei fatti, ma di coloro che ce li raccontano. In fondo, per noi che, come Timpano, a quell’epoca eravamo appena nati o ancora non nati, Aldo Moro è un nome importante, ma in testa non ne abbiamo che qualche immagine, lui con dietro la stella dei br, la Renault 4 rossa (gli splendidi gli oggetti di scena costruiti da Francesco Givone). Aldo Moro è morto, dice Timpano, è una tragedia: ma chi era Aldo Moro?”
Bruna Monaco, «Paneacqua»